Diventare l’autrice della propria storia.

 

 

taylor-swift-reputation-1503637544

 

reputation

review

E’ il 20 Agosto, scendo le scale disinvolta, il sole colpisce le mie spalle nude, il jeans stringe ed attanaglia la mia pelle – è un classico giorno di fine estate, che di classico ha tutto tranne il vibrare incessante del cellulare. Le notifiche corrono tra di loro cercando di raggiungere l’informazione per prima, eppure quale informazione potrei trarre dal nero cosmico che risucchia i social di Taylor Swift?

Taylor Swift, 27 anni, è uno dei personaggi (ah, ricordiamoci, anche, artista*) più interessante e discusso dell’ultimo decennio. La personalità che la contraddistingue – classica ragazzina di provincia con il sogno americano – è accompagnata da puro talento per lettere e note, tuttavia gran parte dei miei conoscenti ricorda tutti i flirt della ragazza (o i feud) ma non sa elencare neanche il titolo dei suoi album!

Fin dall’infanzia Taylor ha mostrato un’interesse per l’arte che non poteva essere ignorato, se la generazione degli anni ’90 si sfogava nei diari segreti, Taylor Swift incideva le sue frustrazioni (e gioie) su corde di chitarra – è così, che all’età prematura di 16 anni esordisce nel mercato musicale americano con il cd omonimo “Taylor Swift”. Il successo stabilito dal primo album è accompagnato dal vincitore di 4 Grammys “Fearless” (incluso Album of the Year 2010) e dal self wrote “Speak now”. Se i primi tre album della Swift si incentravano prevalentemente sul mercato country, conquistando anche i cuori dei più appassionati al pop, da canzoni come “You belong with me”, “Better than revenge”, “The story of us”, si intravedeva una tendenza pop che avrebbe raggiungo il massimo della sua miscela con il country nell’amato R(rrrrandom memories)ed! Successo planetario, secondo album ad ottenere il milione di vendite nella prima settima dalla sua pubblicazione, mostra una Taylor Swift ancora tesa a raccontare storie personali, ricche di dettagli inconciliabili con la vita di chiunque, eppure altrettanto condivisibili (insomma, chi non ha mai ballato con il proprio Jake davanti alle luci del frigorifero?). Ma è proprio durante una delle sue ere più toccanti che la Swift è toccata da molteplici scandali. Quel che ho dimenticato di aggiungere, anche se tutt’ora non ne sento la necessità, è che Taylor si è sempre ritrovata al centro di linee narrative alle quali non voleva essere associata. Si parte dall’incidente con il famigerato Kanye West, alle too many dates, al famoso “watch out, Taylor Swift will write a song about you!”. Colpita da una misoginia agghiacciante, la principessa del country pop non è riuscita a prevedere il feedback negativo che sarebbe conseguito al farsi vedere con il beniamino del pubblico, Harry Styles. La loro breve – certo, breve – relazione è riuscita a mettere in ombra la profondità del suo album ed il successivo break up ha costretto Taylor Swift a ritirarsi dal contesto amoroso che tanto l’aveva messa fuori luce – “I don’t date anymore” sosteneva a fine 2014. Il desiderio di riscatto, di dimostrare che il pubblico si sbaglia, se nel 2010 l’aveva portata a scrivere un intero album senza alcun aiuto, nel 2014 l’aiuta a produrre il capolavoro della sua transizione completa al pop: “1989” vende più di un milione di copie durante la sua prima settimana di vita, vince molteplici Grammys che permettono alla Swift di detenere due premi per “Album of the year” e i due anni successivi sono la dimostrazione della sua intoccabile influenza.

Tuttavia, così come Gatsby venne tanto amato, anche Taylor Swift si trovò completamente sola il giorno del suo funerale. Kanye West, amico della suddetta, pubblica una canzone intitolata “Famous” ove ritiene indispensabile – per il suo ego fine a se stesso – precisare che Taylor Swift sarebbe con lui in debito di sesso, per quell’incidente avvenuto nel 2009, in quanto l’avrebbe resa famosa.

(, cari lettori, parliamo della stessa sedicenne che rimaneva nella classifica dei migliori album country al primo posto per 23 settimane non consecutive).

Credete che l’internet si sia schierato dalla parte della white bitch o dalla parte del Trump supporter? Il risentimento di Taylor, sentitasi violare come donna e come artista, ha portato la moglie di Kanye, Kim Kardashian (credo esista una pagina Wikipedia per lei, nel caso in cui non sappiate chi sia, il che sarebbe comprensibile) a pubblicare frammenti di una conversazione registrata senza l’autorizzazione della Swift, in cui quest’ultima – evidentemente a disagio – accetta di inserire il suo nome nella canzone con la promessa di ascoltarla prima della pubblicazione, cosa mai avvenuta. L’internet attendeva cauto e paziente un passo falso dalla nostra Daisy che, ingenua o colpevole, si è ritrovata a dover affrontare un clima simile a quello del Terrore Bianco dei Termidoriani contro gli ex-Montagnardi.

Ma perchè fare gossip inutili invece che parlare del protagonista di questo pezzo digitale? Perchè è proprio questa scintilla a far sparire Taylor Swift dal radar, a farla lavorare nell’ombra, harder in the nick of time. Rompendo il ciclo del nuovo album ogni due anni, la Swift si gode la vita come una white bitch che si rispetti e costruisce lentamente la sua vendetta.

E’ inizio Agosto quando il suo volto riappare in disegni che ricompongono un processo di cui è protagonista ancora una volta, Taylor Swift conclude il suo letargo con una vittoria schiacciante contro un dj che durante un M&G ha volontariamente molestato la cantante. Taylor riacquista il controllo sul suo corpo, sul suo cuore, sulle sue mani che are shaking from all this, è pronta per il suo ritorno.

Perciò, torniamo a me ed al sole del 20 Agosto. Per la prima volta qualcosa si muove, i social della Swift fino a quel momento rimasti inattivi vengono completamente svuotati. E’ il momento dell’eclissi, nulla è un caso. Sono tre i giorni che lasciano i fans (e non) nell’attesa più fastidiosa, tre i giorni che tengono incollato gran parte del mondo ad un suo movimento, il quale consente alla pubblicazione di tre brevi video che ritraggono un rettile (è Viserys tornato dalla tomba? E’ un segno che conferma la reale identità della Swift?), un serpente. L’ironia della situazione è evidente: Taylor, indicata come serpe per più di un anno dall’internet, si ritrova a reclamare tale status ed a guadagnarci. I Medici di Firenze possono solo accompagnare queste mosse finanziarie.

Sta di fatto che ci viene finalmente fatto sapere che Taylor Swift non è qui per giocare, ma per riprendersi tutto, così, nel silenzio, viene annunciato il suo nuovo album “REPUTATION”.

Reputation”, che fin dal titolo e dal singolo promozionale “Look what you made me do” ci presentava una Taylor bitter, stanca, pronta a tagliare la testa di chiunque, si rivela come un lineare processo di crescita che di fatto prevede la figura di una Taylor desiderosa di vendetta, ma che alla fine riesce a lasciar andare tale aspirazione, fino al momento in cui non la lega più nessuna catena, se non la dolcezza di quella collana che raffigura le iniziali di qualcuno, se non il raggiungimento di quel “Clean” accennato senza consapevolezza in “1989”.

L’album più atteso dell’anno inizia con una perfetta apertura, abituati alle esplosioni di “State of grace” o “Welcome to new york”, la prima canzone di “Reputation” presenta in maniera altrettanto convincente i temi della’album ed il suo stesso concept.

 

 

 

 

…Ready for it:

 

 

 

Singolo promozionale con annesso video, prepara l’ascoltatore all’inizio dei giochi. La Taylor che scrive questa canzone è quella del presente che rimugina so ciò che era all’inizio di questa racconto – una donna cinica, ossessionata dai commenti altrui, incapace di pensare di se stessa qualcosa di distinto rispetto alla verità. Il tema della perdita della sua identità giunge alle sue estreme conseguenze, narrando di due partner in crime dai difetti irrazionali. Il lui di cui narra è un playboy dei classici odierni, un ragazzo la cui età non indica la sua maturità. Ecco che si presenta il primo tema dell’album: Taylor ci tiene più di una volta a precisare la giovane età del suo beau per evidenziare l’immaturità di quelle persone adulte che al contrario non sono riuscite a conoscerla. Il ritornello della canzone ci riporta al classico sound di “1989” ed introduce un secondo tema, un tema che era mancato tantissimo nella’album precedente, quello della fatalità.

“In the middle of the night, in my dreams
You should see the things we do, baby
In the middle of the night, in my dreams
I know I’m gonna be with you
So I take my time
(Are you ready for it?)”

Nonostante i rumors, nonostante il dolore, nonostante tutto, Taylor ha un’unica certezza (I did one thing right) ed è qui che inizia a descrivere quell’immagine distorta di se stessa introdotta dall’hit del 2014 “Blank space” e che, scambiata per pura ironia anche stavolta, nasconde parte della verità. Taylor Swift non è più la “Girl at home” né la “Girl in the dress”, è una robber che ruba cuori senza chiedere scusa, eppure stavolta si lascerebbe benissimo rapire dal suo Burton.

Ecco, è qui che l’attenta scrittura di Taylor continua a distinguersi – Burton e Taylor furono la coppia del secolo precedente, sposati, divorziati, risposati – dimostrando la sua particolarità. Ancora, è il successivo “I’m so very tame nave, never be the same now” che spiega il cambiamento di Taylor, la sua crescita interiore e per la prima volta da “Red”, non è affatto affranta di non essere più quel che era.

Il bridge accompagna la fine della canzone in maniera diversa eppure altrettanto perfetta.

Che i giochi abbiano inizio, perchè so ciò che direte su di me, call it what you want to, non mi importa più”.

Fin dal primo ascolto è stata la mia preferita tra i singoli promozionali e la confidenza con cui Taylor non si sente più in colpa di mostrarsi per quel che è, la rende una canzone di apertura eccellente.

5/5

 

 

 

End Game

 

 

 

Ironico come la prima traccia di Reputation parli di “iniziare i giochi” e la successiva parli immediatamente di terminarli in un “end game”; come ben sappiamo, nulla è un caso, perciò riflettiamo un momento su questa disposizione. Con questa canzone, in collaborazione con il rapper Future ed il cantante Ed Sheeran, Taylor Swift mette in allerta il suo partner. Nonostante entrambi si ritrovino al centro della scena, la Swift è consapevole che la sua reputazione è totalmente rovinata. Facendo un attento esame di coscienza, la cantante è completamente travolta dai dubbi, la musica è costituita da un’ansia graduale. Taylor “can’t let it go”, anche se dovrebbe. In contrasto con questa vena altruista, il ritornello ci presenta un nuovo lato della cantante, quello della ragazza che pretende di essere la priorità del suo uomo – dopo tutto quello che le è successo, richiedere un ride or die sembra necessario. Ma il suo uomo non è contrario a queste richieste, ne scopre i “bluff”, ne ignora i rumors e forse insieme, con le loro reputazioni, potrebbero raggiungere il perfetto equilibrio.

Rispetto all’ultima collaborazione di Taylor con la musica rap (“Bad blood”), “End game” appare più significativa, anche se la parte di Future si distacca dal resto e di fatto non è coerente come quella di Ed Sheeran che senza nascondersi narra della sua attuale relazione. Il successivo pre-chorus è l’estrema sintesi dell’album e con frasi iconiche come “Reputation precedes me, they told you I’m crazy, I swear I don’t love the drama, it loves me”, la Swift conquista il mio cuore e regala milioni di didascalie per le prossime foto di Instagram.

4/5

 

 

I did something bad

 

 

 

E’ un piacere commentare una delle migliori canzoni dell’album e, se mi consentite, della carriera della Swift. Ho già accennato precedentemente come obiettivo di quest’album è quello di mostrare una donna che non si scusa più delle sue azioni, che di fatto non recensisce i suoi comportamenti in relazione al giudizio altrui, che non lascia agli altri decidere le sue scelte. Quando Taylor parlava di riscrivere la sua storia, la sua “narrativa”, intendeva proprio questo, ossia prendersi la responsabilità dei suoi errori. “I did something bad” si apre con il sound che si dilaga per l’intera produzione ed è impossibile non collegare le prime strofe a Kanye West, un narcisista che appare ossessionato dalle azioni di una donna che non riesce mai a prevedere – dite che ho fatto qualcosa di sbagliato nei suoi riguardi? Then why’s it feel so good?

Allo stesso modo, le strofe successive si legano perfettamente ai mignoli degli ex-lovers della Crazy girlfriend. Trovo estremamente ispirazionale il verso “And I let them think they saved me, non sarebbe la prima volta in cui un uomo tenta di prendersi il merito della maturazione di una donna e non dimentichiamo che “If a man talks shit, then I owe him nothin” – inconcepibile non immaginare il sorriso della Swift o non sorridere a mia volta, forse anche commossa, perchè il mondo avrà dimenticato le accuse e le molestie subite, ma Taylor non lo ha fatto e solo pochi mesi fa ha dimostrato in tribunale che un uomo non ha alcun diritto su di lei.

Il bridge porta avanti questo concetto:

They’re burning all the witches, even if you aren’t one
They got their pitchforks and proof, their receipts and reasons
They’re burning all the witches, even if you aren’t one
So light me up (light me up), light me up (light me up)

Siamo tornati nel medioevo, epoca in cui i diritti delle donne non sono neanche un prodotto possibile alla ragione umana. Bruciano le streghe anche se non lo sono, perciò fatelo! Bruciatemi anche se non sono una strega, – Taylor li sfida, aizza la folla contro di sé, posso quasi vederla su un rogo ed è una delle immagini più forti, l’ennesima che mi riporta a quel tribunale.

Se nel precedente album con “New romantics” osava realizzare una romantica critica alla società, in questa canzone travestita da apparente ed infantile diss track, si nasconde molto di più. Forse è proprio questo che rende Reputation così toccante, senza neanche contare una ballad. 

Don’t blame me

 

 

Alla passionale “I did something bad” consegue “Don’t blame me” che con evidenti riferimenti al gospel tormenta la mia testa da giorni ed il verso “Lord save me” conferma la canzone come una supplica religiosa. La Taylor bitter per la prima volta fa quasi cadere la maschera di cinismo che ha deciso di indossare per mesi, fino a perdere il senso della realtà – “Something happened for the first time, in the darkest little paradiseShaking, pacing, I just need you. Dopo essersi decisa ad abbandonare ogni speranza, una svolta decisa la porta a “cross the line”, addirittura ad andare oltre a quello che “they say”. Come mai, però, continuo a parlare di maschere e perdita di personalità? Perchè Taylor anche in questo caso, nella prima strofa, si descrive nella maniera più negativa possibile, ma dopo la “svolta”, nella strofa successiva al primo ritornello succede questo:

And baby, for you, I would fall from grace
Just to touch your face

Una donna che si descrive come una strega, come una ladra che non chiede mai scusa, come una giocatrice, potrebbe mai “fall from grace”?

Un ritorno alla Taylor innamorata dell’amore è evidenziato anche dai costanti riferimenti ad una delle sue più belle canzoni di “Red”, “Treacherous”:

My name is whatever you decide and I’m just gonna call you mine” ricorda “And I’ll do anything you say If you say it with your hands”; 

 

 

If you walk away I’d beg you on my knees to stay” ricorda “I hear the sound of my own voice asking you to stay”.

Echoes of your name inside my mind” ricorda “Your name has echoed through my mind“.

Le due canzoni differiscono per quella “obsession” della prima che è una conseguenza delle paure di Taylor. Ma, ancora, l’intero testo, l’intera base, sono totale ossessione. Pretendo il singolo.

5/5

Delicate

 

Descritto da Taylor in persona come il punto di svolta dell’album, anticipato dalla precedente “Don’t blame me”, la quinta canzone dell’album sembra non essere affetta dalla sindrome dell quinta traccia (secondo la quale ogni quinta canzone degli album della Swift sia la più emotiva), eppure riesco a cogliere nella messa a nudo di Taylor in questa canzone qualcosa di emotivo seppur non di doloroso. Il sound elettro si perde immediatamente nel minimal e dal primo secondo la Swift sembra presentarsi a qualcuno, riproponendo in modo diverso il suo “attento, sai chi sono, sai in cosa ti stai mettendo”, ma in maniera più spaventata. Alla Taylor confidente delle ultime canzoni si sostituisce una timorosa a causa dei motivi che l’hanno resa apparentemente forte – se fino a quel momento la sua reputazione sembra non avere più importanza, ora che va incontro alla sua chance di redenzione, teme che essa possa essere il suo più grande ostacolo. Il pre-chorus mi fa pensare con dolcezza alla serie tv Victoria, in particolare all’episodio 1×04 in cui assistiamo al graduale innamoramento reciproco di Victoria ed Albert ed alla conseguente proposta di matrimonio:

Albert: For me, this is not a marriage of convenience.
Victoria: No. I think it will be a marriage of inconvenience. But I have no choice.
Albert: Neither do I.”

Ritengo che questo dialogo riassumi la situazione in cui si trova la Swift, accompagnata da questa delicata sinfonia e confermata dai versi “This ain’t for the best, my reputation’s never been worse, so you must like me for me...”. A seguire, come una bambina che vede per la prima volte le stelle, si domanda tremante:

Is it cool that I said all that?
Is it chill that you’re in my head?
‘Cause I know that it’s delicate

Quel che Taylor vuole trasmettere è, appunto, la tenera sorpresa che si sta sviluppando nella sua anima alla presa di coscienza che sta davvero succedendo, che dopo tutto quello che è successo, si sta davvero lasciando andare ancora una volta, si sta rendendo vulnerabile ancora una volta. Non è sorprendente? Non è la cosa più naturale del mondo? No, per Taylor Swift non lo era da molto tempo, perciò protegge questa sensazione nel modo più cauto e delicato possibile.

Estremamente toccante.

5/5

Look what you made me do

 

LA canzone tanto attesa dopo un anno di silenzio insopportabile, ascoltata per la prima volta alle 5am del 25 Agosto, fissata nella mia testa con dei chiodi. Attraverso questo primo singolo di promozione dell’album, Taylor Swift è riuscita a realizzare un hype ben congegnato. Nato da un suo stesso poema, “Look what you made me do” è l’estrema conseguenza di “Blank space”. Con una satira sottile, la Swift si impone al di sopra delle critiche e dell’hashtag #TaylorSwiftIsOverParty del 2016, rende suo il subdolo marchio del serpente e minaccia chiunque della sua vendetta – guardate cosa le avete fatto fare ed in effetti, cosa le avete fatto fare?

Avete costretto una ragazzina di sedici anni a crescere troppo in fretta per condividere il frutto della sua arte, avete costretto la suddetta ragazzina a crescere accerchiata dalla misoginia, avete costretto un’artista a cambiare sempre e comunque per essere costantemente perfetta al contesto d’esame, l’avete costretta a rinnegare i suoi sogni d’amore senza speranza, a chiudere il suo cuore, a smettere anche di pregare per il prossimo perchè nulla (nulla) andava mai bene.

L’avete costretta al silenzio ed ora è tempo di parlare – no, la lezione di “Speak now” non è stata dimenticata.

E forse, sta proprio nella genialità di questo manifesto, nella rabbia inespressa dal tono calmo, dalla minaccia implicita nel ritornello – dal fatto che Taylor Swift abbia colto la terra bruciata creata attorno alla sua figura e ci abbia guadagnato in quindici tracce strabilianti – forse è proprio questo a rendere tale canzone una delle migliori della sua carriera. Quel che dimostra la Swift con il primo singolo di “Reputation” è che non c’è bisogno di troppe parole per avere un impatto.

4/5

 

So it goes…

 

 

Personalmente, “So it goes…” si presenta come una delle mie preferite dell’intero album. Confermandosi come una continuazione di “Style”, dalla musica al contenuto ci si concentra sul verbo “incantare”. Le prime strofe, ed a seguire le seconde, paragonano Taylor ed il suo partner a degli illusionisti/maghi incatenati letteralmente dai loro sentimenti, incatenati a qualcosa che non riescono a lasciare andare. Ora capite il collegamento con “Style”? Già nella canzone appena citata l’espressione “So it goes…” è utilizzata per descrivere l’incapacità del suo lui di distogliere lo sguardo da lei – sembra incantato, riuscite a seguirmi?

L’intera “So it goes…”, come il resto delle tracce, costruisce un visual ben definito: riesco quasi a vedere una Swift dietro le quinte che spreca il suo rossetto sulla pelle di questo indefinito personaggio. Quel che poi mi fa pensare a questo brano come un seguito di “Style” è proprio il modo in cui Taylor si descrive: “I’m not a bad girl but I do bad things with you” – il concetto di “bad girl” è sicuramente centrale in “Reputation”, ma fino alla canzone precedente la Swift si trovava appena sul punto di svolta, sul punto di far cadere la sua maschera. Ritornare immediatamente a contatto con ciò che è realmente ad una canzone di distanza sembra frettoloso, se non che… Taylor stia ricordando il passato, Taylor stia scrivendo quel che segue a quei puntini di sospensione lasciati alla fine del videclip “Style”, lasciati anche nel titolo della canzone che stiamo esaminando “So it goes”.

Lo stesso concetto di essere “catturati nel momento”, di non riuscire a resistere quando “si trovano”, quando “tutti gli occhi sono su di noi”, accentuano l’inesistenza della relazione stabile che è protagonista di quasi tutto l’album. Nonostante il sound catchy, il finale non può che lasciare un peso sul petto – la dinamica ripetitiva di questo sentimento e spezzata all’improvviso e se in “Style” la melodia accompagna ogni singolo secondo, ecco che qui è tagliata di netto. E’ finita. (In effetti, la seconda volta che troviamo i puntini di sospensione sono per accompagnare l’inizio di un nuovo amore con “ready for it?”).

5/5

Gorgeous

 

 

Terzo singolo promozionale dell’album, scelto dalla Swift per evitare lo stesso shock dettato dalla presenza di una canzone insulsa come “How you get the girl” in un album come “1989”.

Attenzione, ciò non toglie che io sappia la musica a memoria e che l’intero testo sia ricordato parola per parola come neanche l’inno di Mameli. “Gorgeous” è una canzone i cui lyrics potrebbero benissimo avere la maturità dell’omonimo album “Taylor Swift” (anche se la sedicenne con gli stivali alti scriveva cose ben più profonde). La cosa che rende “Gorgeous” comunque piacevole è il suo essere perfetto per situazioni comune in cui ci si ritrova spesso – la cosa che rende “Gorgeous” in parte giusta nella tracklist di “Reputation” è il suo essere “unapologetic”. Ho un fidanzato, ma ti voglio.

Però… niente, non la riesco a salvare neanche io.

2/5

Getaway car

 

 

 

Scrivere di questa canzone è abbastanza difficile, rispetto a tutte le tracce fino ad ora ascoltate “Getaway car” è sicuramente quella più complessa dove la fantasia della Swift si mostra come già in “1989” era successo con “Wonderland”.

Se in “Wonderland” l’amore “doomed from the start” aveva portato a qualcosa di “worse” ma anche di “better”, la nona canzone di “Reputation” descrive esclusivamente il “worst of crimes”.

La “getaway car” è il veicolo utilizzato da due criminali dopo aver compiuto un crimine. Immediato il collegamento con un sicuro “tradimento amoroso”, confermato dalla cantante nel bridge “Cause us traitors never win”, ma in questo brano ci vedo molto di più. Collegarmi al precedente pezzo “I did something bad” ed in particolare al verso “And I let them think they saved me” mi pare inevitabile.

Taylor Swift descrive di essere fuggita via dal drama della sua vita, da un uomo che voleva lasciare da molto, per mezzo di un altro uomo – un uomo che pensa di averla salvata, quando Taylor desiderava solo la libertà:

It was the great escape, the prison break
The light of freedom on my face

Ma lui non stava pensando razionalmente e la ragione di lei era annebbiata da altro – questo “altro” viene definito metaforicamente come “drinking” e forse – forse – la presenza del precedente brano “Gorgeous” assume un senso. In vino veritas e la Swift bevendo un po’ troppo dimostrava di esser affetta dalla presenza di un certo “Gorgeous”, così come qui dimostra di star pensando ancora a lui con il riferimento all’alcol. Ecco che la macchina viene raggiunta da una terza persona, ecco che ci si trova irrimediabilmente in tre ed è davvero una sorpresa? Oh, no, “Don’t pretend it’s such a mystery, think about the place where you first met me”.

Ecco che “Getaway car” diviene uno dei pezzi più emotivi e sentiti dell’album, con questa ladra di cuori che fugge senza chiedere scusa per ottenere la sua libertà, la sua salvezza e forse anche per fare del bene al suo ex-something.

5/5

 

King of my heart

 

 

Mi chiedo chi, chi (chi) chi, abbia guardato Taylor Swift negli occhi e le abbia dato il permesso di pubblicare l’incarnazione del suicidio sociale.

Ed è con questa unica introduzione che presento l’undicesima traccia dell’album più aspettato dell’anno, “King of my heart”.

A dispetto del titolo abbastanza trash, ero pronta a dare tutte le possibilità esistenti a questo brano e seppur i lyrics si salvino (inserire gif “not you, you can choke” riguardo al ritornello), rimane il brano meno riuscito dal punto di vista musicale. L’obiettivo della Swit era di narrare l’evolversi della sua attuale relazione attribuendo ad ogni strofa un sound differente ed in questo c’è riuscita, ma qualcuno non le avrà spiegato che inserire cinque sound diversi porta a realizzare un mappazzone.

Fuggita via dalla sua prigione nella personale getaway car, Taylor Swfit ricompone la sua politica interna, felice della ritrovata solitudine, finchè giunge il punto di svolta descritto in “Delicate” ed ecco che, se in “1989” era New York che stava “been waiting for you”, la città viene sostituita con il “King” pronto a cambiare le sue – appena ritrovate – priorità. Tralasciando il sound del bridge, esso contiene la sintesi del motivo per il quale il nuovo beau rappresenti quello che stava aspettando:

“Is the end of all the endings?
My broken bones are mending
With all these nights we’re spending
Up on the roof with a school girl crush
Drinking beer out of plastic cups
Say you fancy me, not fancy stuff

Baby, all at once, this is enough”

Tale “King” non vede in lei la Taylor Swift che ti da il benvenuto nella metropoli più importante d’America, non vede l’American queen, ma una school girl crush che ritrova la bellezze nelle piccole cose. Addio champagne in coppe di cristallo, un bicchiere di plastica e la birra più scadente assumono un valore nettamente superiore con te. Queste sono le vere dichiariazioni d’amore.

2/5

Dancing with our hans tied

 

 

 

In molti rimpiangono la presenza di una ballad in “Reputation”, ma l’heartbreak consistente in questa traccia riesce quasi del tutto a colmare il vuoto. Taylor fin dai suoi primi successi è sempre stata legata alla metafora che l’immagine del “ballo” potesse portare – indimenticabile “Fearless”, così come la tragica “All too well” ed infine la nostalgica “Out of the woods” con il suo

To move the furniture so we could dance
Baby, like we stood a chance”

E’ in questo modo che voglio aprire il mio commento per “Dancing with our hands tied”, con un collegamento sottile ma altrettanto forte con la relazione protagonista di “1989”. Conclusione perfetta con il sound che l’ha legata all’album precedente, in quanto questa canzone contiene i più subdoli dettagli che riportano ad hit come “Wildest dreams” o “Clean”.

Una Taylor di 25 anni narra di questo amore segreto per il quale ha investito molto, senza mai crederci davvero. Ecco la tragedia del “timing is a funny thing”, eccola che torna con una Taylor troppo cinica ed un (basta, non mi nascondo) Harry pronto a coglierla, ma rifiutato. Tuttavia ballavano, lottavano, si ribellavano al mondo, seppure legati, da cosa poi? Da questo “bad feeling” che la Swift inutilmente tenta di scrollarsi di dosso, da questo bad feeling che spera non rovinerà anche la sua attuale relazione.

I’d kiss you as the lights went out

Takes me home, lights are off he’s taking off his coat 

Swaying as the room burned down

Tangled up with you all night
Burn it down

I’d hold you as the water rushes in

The water filled my lungs,I screamed so loud but no one heard a thing

If I could dance with you again.”

(Che possiate farlo, che possiate ancora danzare insieme).

5/5

 

Dress

 

 

 

Un caloroso benvenuto alla nuova entrata nella top ten delle mie canzoni preferite di sempre – se c’è qualcosa che amo davvero di “Reputation” è il modo in cui crea una sensazione con il suo sound ed ecco che con “Dress” si riesce a sviluppare quell’impazienza, quella detestabile attesa che fa tremare le tue mani, accompagnata da quei “ah, ah, ahhh” che dovrebbero precedere un’esplosione ed invece portano ad un ritornello in falsetto appena sussurrato.

L’ennesima segreta relazione, l’ennesima cosa che il mondo non potrà capire, così come il desiderio che non soltanto le fa tremare le mani ma le toglie l’uso della parola. Teneramente il bridge, che di fatto trasforma la canzone in una romantica celebrazione del suo rapporto, mi ricorda “You’re in love” ed il suo “why I’ve spent my whole life try to put it into words”. E’ la prima volta che Taylor sostiene di star vivendo qualcosa di talmente coinvolgente da non poterlo dire a parole – da studente di lettere il collegamento con i lirici latini mi pare necessario. Si tratta sicuramente di un topos, di licenza poetica, eppure è proprio qui che Taylor si spoglia totalmente della sua reputation e intravede il bianco, il nero, il grigio di se stessa – in parte proprio perchè lui è riuscito a farglielo vedere.

And I woke up just in time
Now I wake up by your side
My one and only, my lifeline
I woke up just in time
Now I wake up by your side
My hands shake, I can’t explain this

Mi sono liberata giusto in tempo per incontrarti, per una volta il tempo sembra essere dalla sua parte.

5/5

 

 

This is why we can’t have nice things

 

 

 

Non più incantata dal mondo dello spettacolo ma legata alla birra nei bicchieri di plastica, la Taylor di “I did something bad” è pronta a mettere le mani sulla chitarra ed a comporre un testo all’altezza della maturità delle persone che negli anni precedenti hanno osato sabotarla. Ecco, che a tale modello di maturità, non può che rispondere “This is why we can’t have nice things” con il suo tono sarcastico ed il suo ritornello doppio tono che ricorda un gruppo di bambini capricciosi – perchè, appunto, la maturità dei big enemies di Taylor corrisponde a quella dei bambini.

Unendo la sua passione per Fitzgerald (ma ricordandomi anche Willy Wonka) Taylor Swift si riconosce nel Grande Gatsby e nelle sue sfarzose feste, in quel falso buonismo utilizzato per ottenere secondi fini o la tranqullità generale. Ma ecco che qualcuno è pronto a far piovere sulla sua festa ed a costringerla a chiudere le porte della sua vita.

La nostra maestrina preferita ci spiega bene il motivo per il quale le cose non vanno bene, perchè le rompiamo, perchè le disprezziamo e roviniamo con le nostre stesse mani. Ma a rendere questo pezzo il sovrano indiscusso dell’album è il bridge:

“Here’s a toast to my real friends
They don’t care about that he said, she said
And here’s to my baby
He ain’t reading what they call me lately
And here’s to my momma
Had to listen to all this drama
And here’s to you
‘Cause forgiveness is a nice thing to do

(Non andate via! Aspettate un secondo!)


Haha, I can’t even say it with a straight face

Tu, sì, tu che stai leggendo: credevi davvero che non sarei venuta a sapere delle cose che hai detto su di me?

5/5

 

Call it what you want

 

 

Divertente come per molti anni tutti abbiano utilizzato, come argomento contro il suo talento, il suo essere monotematica. “Scrive solo dell’amore”, mi viene detto, ma l’amore non è mai uguale a se stesso ed è per questo esatto motivo che “Red” rappresenta il suo lavoro più autentico ed è per questo motivo che “Call it what you want” racconta una sfumatura dell’amore inedita: una sfumatura priva di dolore, priva di paure, priva di ansia, priva di un finale già scritto.

Riprendendo la strofa iniziale di “King of my heart”, Taylor da una breve occhiata sulla sua vita, un’esperienza vissuta nella pacatezza eccessiva che l’ha costretta a portare una “knife to a gunfight“, che l’ha portata a perdere quella corona che tanto aveva desiderato indossare. Proprio qui, in queste parole amare si cela un “I’m doing better than I ever was” – la Swift, partita da una distorta conoscenza di se stessa, giunge finalmente all’equilibrio perso in “Red” e creduto ritrovato in “1989”.

Il poetico che ho trovato per l’intero album è nascosto in questo evolversi progressivo, questo sbocciare avvenuto non per esclusiva causa di un uomo. E’ difficile il percorso da lei eseguito e c’è voluto fin troppo per smettere di avere paura. In questa ballad, per molti piatta, il tutto è concentrato nelle parole ed in quell’arte che la Swift non perde neanche a 28 anni, quando la fantasia dovrebbe dare il posto alla realtà – ma, potrebbe dirmi Taylor, questa è la realtà che di fatto sta vivendo. Perciò, va bene che sappiate, va bene che proviate a dividerci, va bene che tentiate di sapere o giudicare, va bene se provate a dare un’etichetta anche a questo stato di felicità. Chiamatelo come volete, non importa più, stavolta per davvero.

“I want to wear his initial on a chain round my neck
Chain round my neck
Not because he owns me
But ‘cause he really knows me
Which is more than they can say, I
I recall late November, holding my breath
Slowly I said, “You don’t need to save me
But would you run away with me?”
Yes (would you run away?)”

Rispetto ad una qualsiasi canzone d’amore, Taylor non dimentica di ricordare per la terza volta la presa di coscienza che nessun uomo la può salvare e che LEI è riuscita a salvarsi. L’indipendenza non viene perduta per un anello o, in questo caso, per una collana. Un sottile messaggio femminista che colgo con piacere e dolcezza.

Magari non la conosceremo mai, ma in quel poco che ci mostra, spero che potremo perlomeno capirla.

5/5

 

New year’s day

 

 

 

Trovata la pace, Taylor abbandona tutti i sotterfugi elettronici, c’è un ritorno alle origini che fa sentire questa canzone come un ritorno a casa. Una sola chitarra, una sola voce, la Swift consola se stessa ed il suo pubblico con brevi parole che scalfiscono l’anima e ti fanno riflettere.

Ad essere romanticizzato non è il bacio a mezzanotte, non sono le promesse tradizionali a fine anno, ma le bottiglie nella spazzatura dopo l’ennesima festa, la prima in cui nessuno rompe il suo cuore o la sua reputazione – la prima festa che vede i cancelli ancora aperti per una sola persona, la sua persona. E’ una preghiera costante, una supplica senza scuse, un promettersi qualcosa di migliore anche nei momenti peggiori – a long road che non conosce l’ultima pagina, ma anche se dovesse, potrebbe solo raccogliere un “vissero per sempre felici e contenti”, magari solo nei ricordi, i quali vivranno per sempre.

Mi sento, dal più profondo del mio cuore, di dedicare i sospiri con cui “Reputation” si chiude proprio a questa donna di quasi ventotto anni:

Please don’t ever become a stranger
Whose laugh I could recognize anywhere.

5/5

 

 

 

 

 

Sono consapevole che non ho davvero creato una recensione, riconosco che la musica di Taylor Swift non riesco ad ascoltarla e basta – necessito di sentirla con gli occhi e con la pelle. Per la prima volta Taylor porta a termine un progetto completo, un album che vede il moderno superare ciò che era ieri costantemente. A fare di “Reputation” il miglior lavoro della Swift è il modo in cui la narrazione supera le perifrasi complesse e si appoggia su frasi brevi, povere, ma legate tra di loro in un mosaico che ti arriva fino in fondo – a fare di “Reputation” il miglior lavoro della Swift è la musica stessa, una produzione che riesce a superare quella di “1989” con effetti e note che esistono per attribuire significato a quella sola parola. A fare di “Reputation” il miglior lavoro della Swift, è il mio riflettermi ed affogare in esso.

Ad essere obiettivi nella vita ci si stanca ed è sera da un po’, gli occhiali calano sul naso, non ho la forza di aggiustarli.

Sono stanca, ma sono viva ed è sconvolgente come un album possa farti sentire viva, come trovare se stessi in delle parole non tue possa farti sentire meno sola.

E’ così che ci si sente nello scrivere le cose giuste?

E cosa vuol dire scrivere il giusto? Magari siamo più simili a Taylor Swift che a quello che pensiamo di essere. Condividiamo gli stessi dubbi, le stesse paure.

Sono abbastanza?

Ho davvero sbagliato?

Sono una brava persona?

Ma, ho il diritto di essere?

Sembra che Taylor Swift abbia trovato le sue risposte – forse anche io.

Tu?

 

 

 

 

Scrivi, mi dicono, scrivi.

taranto-ciminiere

Caro diario,

questa mattina papà è rimasto tutto il giorno a casa ed anche io con lui. Inizialmente non sapevo il motivo; la mamma mi ha svegliato tardi ed ha detto che oggi io e Luca potevamo rimanere a casa, non ho obiettato. Papà era lì a sorridermi e poi ci ha preparato la colazione che normalmente per me consiste in una tazza di latte con l’orzo – perchè il caffè è per i grandi. Al contrario, papà ha deciso di sorprenderci e tostare del pane per poi spalmarci sopra della cioccolata assieme ad un filo di miele. Era ovvio che, non avendo mai visto papà in cucina, il risultato sarebbe stato uno disastro. L’odore del pane bruciato faceva comunque brontolare il mio stomaco assonnato. Io e Luca abbiamo colto l’occasione per burlarci di lui, ma alla fine la mamma ha salvato la situazione.

E’ da un quarto d’ora che rileggo queste ultime righe e avrei voluto poterti scrivere che la giornata l’abbiamo passata ridendo e rimanendo insieme, come una normale famiglia, in una normale città. Ma oggi ho scoperto che non c’è niente di normale e giusto qui.

Papà poco dopo ha deciso di dirci qualcosa. La mamma era lì – ma non c’era, la sua ombra mi spaventava e la sua fronte era ricca di fitte linee. L’idea di abbracciarla mi sfiorò appena, ma papà non mi ha dato il tempo necessario per agire, per respirare, per fare qualsiasi cosa. Ha chiamato il nome di mio fratello con un respiro, non so come Luca abbia fatto a sentirlo – ma io l’ho fatto… ho sentito nel mio petto che era successo qualcosa. Penso di averlo sempre saputo, mentre guardavo le ciminiere con le loro larghe bocche che eruttavano fumo come vulcani non attivi ma così vicini all’esplosione. Penso di averlo capito quando la maestra ci ha spiegato che l’uomo nero non è colui che cerco di fuggire la notte, ma il mio papà che lavora in un luogo che si nutre delle vite altrui. Penso che anche tu lo abbia sempre saputo, mentre ti scrivevo delle mie stupide amiche e delle sciocchezze della mia vita. Penso di aver sempre odiato la parola ‘grande‘ o ‘adulto‘ perchè sapevo che io lo sarei dovuta diventare troppo presto. E’ troppo presto. Penso che papà non abbia mai imparato da qualche libro come dire ai propri figli di avere il cancro, sono certa che abbia dovuto improvvisare. Ho apprezzato lo sforzo. Sento ancora un formicolio sulla mia mano, anche ora che la mamma me l’ha lasciata dopo averla stretta fortissimo fino a farmela diventare viola, mentre papà snocciolava le uniche parole che tu davvero non vorresti mai sentire.

Pensavo che Luca sarebbe rimasto calmo. Ho sempre creduto che lui fosse quello grande, irraggiungibile come un grattacielo, lontano come la morte. Questi pensieri mi sussurravano che ero troppo piccola per pensarci, invece mi hanno mentito. Sono costretta a trattenere il tremolio delle labbra con i denti, sono costretta a rimanere io quella calma mentre Luca singhiozza senza freni.

Papà ci ha abbracciato forte ed ha detto che non dobbiamo preoccuparci. Aveva anche detto che mi avrebbe protetto ed ora vuole andare via? Aveva detto che lui non era cattivo, che sarebbe rimasto. Lo aveva davvero detto. Perchè anche lui mi ha mentito? Solo gli uomini cattivi vengono puniti. Cos’ha fatto il mio papà?

Dice che è benigno, ma non so cosa voglia dire. Dice che è al primo stadio, che può salvarsi. Lui dice. Ed io non credo più, io penso. Io penso e dico. E lui mi comprende, dice ancora, lui non volerà via, continua a dire sorridendo. Lo stesso sorriso che non accende i suoi occhi. Ma se tutto andrà bene, perchè Luca piange? Perchè la mamma continua a stringermi forte la mano mentre gli occhi le si gonfiano? Perchè papà non credi nemmeno tu alle tue parole? Perchè lo sto scrivendo? Perchè sto bagnando il mio diario di lacrime? Perchè sto piangendo? Perchè non riesco più a respirare? Forse anche io ho il cancro, forse anche io sto morendo. Forse papà ha mentito, ancora una volta. Forse non ha senso ciò che penso. Qualcosa mi sta mangiando da dentro, è quel pensiero fisso che continua a dirmi: sono solo una bambina, sono solo nove le candeline che ho spento quest’anno sulla torta rosa confetto, non me lo merito. Sono solo io. Sola contro quelle ciminiere, contro il rosso che dipinge il loro falso bianco. Riesco a vedere il rosso dei polmoni di papà tinti del loro nero, del loro grasso e della loro malignità. Il cielo arso della loro cattiveria, la vita vuota del mio papà.

La maestra ci aveva assegnato un tema in cui chiedeva di scrivere della nostra più grande paura. L’ho riscritto. Perchè quello che più mi spaventa è il nero. Perchè l’uomo nero non è riuscito a prendere me ed ora per vendicarsi prenderà il mio papà.

Inoltriamoci nel “Crepuscolo”.

 

 

Una me di dodici anni guardava con apatia la televisione, finché un noioso programma non venne interrotto dalla pubblicità ed in particolare dal trailer di un film dalla scenografia cupa, caratterizzata da un “Dillo, ad alta voce… dillo!”. Io stessa stento a crederci, ma al tempo ero un’innocente ragazzina che in risposta urlò “Cosa devi dire?”, perciò incuriosita da quel mistero, feci affidamento ad Internet e mi dedicai alla visione del suddetto film intitolato “Twilight” (2007). Mettendo da parte il mio lato da fangirl in cerca del “vampiro con la Volvo” invece che con il “principe Azzurro” – ho recentemente scoperto che fa seriamente di nome Azzurro, agghiacciante – soltanto con l’uscita del successivo capitolo della saga cinematografica “New Moon” (2009), giunsi alla scoperta che la storia di Edward e Isabella era tratta da una saga di libri.

L’autrice in questione si chiama Stephenie Meyer ed è il 2 Giugno del 2003 quando, cercando di ottenere le giuste ore di sonno, sogna di una ragazza “very fair-skinned, with long, straight, dark brown hair and chocolate brown eyes. Her face is heart-shaped—a wide forehead with a widow’s peak, large, wide-spaced eyes, prominent cheekbones, and then a thin nose and a narrow jaw with a pointed chin. Her lips are a little out of proportion, a bit too full for her jaw line. Her eyebrows are darker than her hair and more straight than they are arched. She’s five foot four inches tall, slender but not at all muscular, and weighs about 115 pounds”. E’ Isabella Swan. Nello specifico, la Meyer sogna quel che poi sarà il capitolo 13 del primo libro della saga, ossia il momento in cui Edward decide di mostrare a Bella l’effetto che il sole procura alla sua pelle (sì, “Twilight” si genera su una delle battute più usate dai critici dell’opera, cioè quella dei vampiri shining bright like a diamond in stile Rihanna). La Meyer ci racconta che il sogno era stato talmente vivido, che doverlo raccontare era stata una necessità – nonostante la già ottenuta laurea in letteratura inglese, l’autrice si dedica alla scrittura all’età di 30 anni circa. Di fatto, l’obiettivo della Meyer era quello di liberarsi da questo sogno, di conoscere quei personaggi e di comprenderne la psicologia; in una manciata di mesi il primo libro era stato concluso e fu la sorella ad incoraggiarla a pubblicarlo.

Provò ad inviare il suo manoscritto a quindici case editrici differenti e dopo nove rigetti, per la fine del 2003 ottenne un contratto con la “Little, Brown and Company”. L’opera venne pubblicata nel 2005, ottenendo ad un mese dal suo rilascio il 5° posto nella lista dei best-seller del New York Times, per poi raggiungere il 1°. Il successo ottenuto fu quindi straordinario ed inaspettato – ovviamente, anche le critiche non mancarono. Nonostante ciò, la Meyer continuò a scrivere l’avventura di Bella realizzando i tre libri successivi – New Moon, Eclipse, Breaking Dawn – e ricevendo la possibilità di sviluppare il proprio racconto in un film; lo stesso film che oggi mi ha portato a trattare di questa narrativa. Possiamo dire, quindi, che il fenomeno Twilight, indica l’inizio della stagione YA che non è ancora terminata (nonostante il suo declino sia alle porte a cause dei lavori disgustosi fino ad ora realizzati). Wayne Janes del Toronto Sun già affermò questo nel 2008, sostenendo che: “Meyer’s success points up another trend – the virtual domination of the best-seller lists the last few years by what would normally be classified as young adult fiction”.

A questo punto, vi chiederete il motivo di questo insulso discorso, in effetti è molto semplice: la Meyer viene dipinta come una scrittrice mediocre, se non scarsa; autrice di un’opera altrettanto inutile e dai contenuti miseri. Ritengo di dissentire – almeno, la dodicenne che ebbe tra le mani quei libri, divorandoli in poco tempo, batte le mani contro la testiera e pretende di parlare. E’ risaputo che questa saga ha avuto successo perchè risponde ai bisogni della nuova generazione, cioè a quella fascia d’età compresa tra i 12 e i 17 anni. “Twilight” è di certo uno YA, perciò non ci si può neanche aspettare altrimenti. Volendo difendere questa lettura che ha fatto da protagonista durante il mio periodo adolescenziale, ho deciso di rileggere il primo capitolo della saga, cercando di criticarlo nella maniera più obiettiva possibile.

Sono tre le critiche mosse nei suoi confronti nel corso degli anni:

1) Successo immeritato;
2) Protagonista anti-femminista;
3) Mediocre capacità di scrivere.

 
Per quanto riguarda il primo punto, facciamo un breve excursus. La Meyer ha ottenuto tanto successo quanto insuccesso, come è giusto che sia. Tra le tante critiche, spicca quella di Stephen King, il quale – facendo un paragone con la Rowling – affermò: “The real difference is that Jo Rowling is a terrific writer, and Stephenie Meyer can’t write worth a darn. She’s not very good. People are attracted by the stories, by the pace and, in the case of Stephenie Meyer, it’s very clear that she’s writing to a whole generation of girls and opening up kind of a safe joining of love and sex in those books. It’s exciting and it’s thrilling and it’s not particularly threatening because it’s not overtly sexual. A lot of the physical side of it is conveyed in things like, the vampire will touch her forearm or run a hand over skin, and she just flushes all hot and cold. And for girls, that’s a short hand for all the feelings that they’re not ready to deal with yet”. In sintesi, King ritiene che la Meyer non sappia scrivere così bene ed il suo successo derivi dal fatto che si rivolge ad una generazione pudica, o perlomeno ancora non pronta ad affrontare il sesso nei suoi dettagli, quindi rimane soddisfatta da un contatto poco intimo e estremamente esaltato. Ovviamente c’è del vero in questo, gli YA – o quelli che oggi vengono pubblicati come tali – puntano molto su questo; come si è affermato attraverso varie tesi, il sesso femminile tende a non accontentarsi dell’immagine sessuale, vuole sentirle le cose e la lettura le permette di farlo. Si gioca molto su questo nel mercato industriale culturale e per ora sta andando bene, anche se i valori morali trasmessi sono del tutto sbagliati, finendo con il collegare il sesso con una relazione forzata/abusiva/violenta. Tuttavia continuo a crede che questo non sia il caso dell’autrice in questione, parliamo di un’opera realizzata nel 2003 ed il cui ultimo obiettivo era quello di far marcia sulle debolezze delle lettrici del ventunesimo secolo; ancora, credo che la tematica sessuale sia sviluppata in questo modo in funzione dei personaggi stessi. Prendendo in considerazione la figura di Edward e il suo bisogno di sangue, non si sarebbe mai potuto trattare il loro rapporto fisico in maniera differente. Il “vampiro” viene descritto come un essere in grado di incantare; a pagina 226 Edward dice “Sono il migliore predatore del mondo, no? Tutto di me ti attrae: la voce, il viso, persino l’odore. Come se ce ne fosse bisogno! Come se tu potessi sfuggirmi! Come se potessi combattere ad arme pari” – è la migliore descrizione che abbiamo della sua razza. Come uno di quei fiori bellissimi, accattivanti, che infine risultano tali solo per abbindolarti ed avvelenarti, i “vampiri” assumono la stessa forma. Di conseguenza, l’effetto della presenza di Edward è dato non soltanto dai sentimenti provati da Bella, ma anche dalla sua natura assassina.

Nel secondo punto viene invece trattato un punto che va al di là delle capacità artistiche della Meyer, si analizzano proprio i contenuti ed i temi trasmessi, l’intento morale dell’opera. Reduce dall’esame della Maturità 2016, mi sento di dover iniziare il discorso con una delle domande che mi sono state rivolte durante l’orale: per quale motivo è nato il romanzo? Il romanzo è nato per dilettare e solo successivamente ha assunto l’obiettivo di esaltare i valori etici, morali o religiosi di una determinata fascia di lettori. Un romanzo, non necessita di una morale – un romanzo necessita di emozioni, un romanzo per funzionare deve alla fine lasciarti qualcosa (che sia disgusto, odio, rancore o volontà critica, non fa differenza). Solo successivamente possiamo distinguere un buon romanzo da un cattivo romanzo; la stessa Meyer, in risposta alle critiche, ha condiviso queste parole: “It’s inevitable that the bigger your audience gets, the bigger the group who doesn’t like what they’re reading will be. Because no book is a good book for everyone. Every individual has their own personal taste and experience, and that’s why there are such a great variety of books on the shelves. There are lots of very popular books that I don’t enjoy at all. Conversely, there are books that I adore that no one else seems to care about. The surprise to me is that so many people do like my books. I wrote them for a very specific audience of one, and so there was no guarantee that any other person on the planet besides me would enjoy them. […] If I could go back in time, knowing everything I know right now, and write the whole series again, I would write exactly the same story. (The writing would be better, though—practice makes perfect.) This is the story I wanted to write […] People’s reactions don’t change that” – e l’ho trovato assolutamente inspiratorio.

Ma ritorniamo a noi, Isabella Swan viene definita anti-femminista a causa delle scelte relative alla sua relazione con Edward ed al suo stile di vita. Ben saprete come il “Femminismo” negli ultimi tre anni sia divenuto una colonna portante all’interno della mia vita, divenendo uno strumento di misura quotidiano. Ricordiamo che con “Femminismo” si intende quel movimento storico-culturale che punta alla parità dei diritti tra uomini e donne – punto focale è la libertà di cui la donna spesso viene privata, libertà negata che non le permette di agire come una persona autonoma, a dispetto degli stereotipi di genere o d’ambito sociale. A Bella si critica il modo in cui ha vissuto la sua relazione con Edward, ponendolo al centro della sua vita e distaccandosi dai suoi amici, fino a giungere in “New Moon”, quando l’addio di Edward porta Bella alla depressione. Bella ha soli diciassette anni quando entra in contatto con un mondo impossibile e con la morte, seguire le sue scelte e i suoi ragionamenti è stato estremamente affascinante – ad ogni pagina ti chiedi: “Io cosa farei al suo posto?”, spesso avrei risposto “Scapperei!” ed altre volte “C’è troppo in gioco per farlo”. Partiamo quindi dal presupposto che la situazione di Bella non si può inquadrare nei limiti del razionale, ma con questo non intendo affatto giustificare il suo comportamento del secondo libro. Bella pensava di Edward come di una creatura leggendaria – che di fatto… è – lo vedeva come un essere superiore, ma ciò sarebbe successo anche se lui fosse stato un normale essere umano. Conoscendo Bella, si comprende anche il suo tormentato carattere e quel sentimento d’inferiorità che durante l’adolescenza si è trasformato in complesso d’inferiorità. Secondo lo psicanalista e pedagogista Adler, tale complesso viene prodotto da una mancanza avvenuta nell’infanzia – il bambino non è inserito nelle condizioni necessarie per sviluppare la propria volontà di potenza, ciò provoca i successivi cali d’autostima e le nevrosi. Nel caso specifico di questo personaggio letterario, Bella ha dovuto affrontare un divorzio, una madre-bambina, un padre assente e le responsabilità di un adulto. La già precaria situazione psicologica della ragazza, si fonda da base per una relazione ossessiva. Edward è il suo primo amore, il suo primo fidanzato, il suo primo tutto – la prima persona che la fa sentire un’adolescente, che ha saputo vedere oltre. Perderlo significava ritornare ad essere Bella, ritornare a convivere con le incertezze, con i sogni che la tenevano sveglia la notte e con i problemi comuni che la sembravano irrisolvibili se messi a confronto con quelli dei vampiri. Nonostante questo, seguiamo anche il trasformarsi del carattere di Bella, l’amicizia di Jacob le fa capire che Edward non sarà l’unico ed il solo a poterla vedere – finchè poi non si giunge in Eclipse e Breaking Dawn, opere nelle quali Bella sceglie se stessa svariate volte. E’ uno dei character development che preferisco, se non IL mio preferito.

La Meyer, ha risposto di prima persona a queste critiche, affermando che esse sono spesso relative alla scelta di Bella di sposarsi ed avere un bambino a soli diciotto anni. L’autrice si è difesa ritenendo che il suo non volesse essere un libro da prendere come modello di riferimento – dannazione, ragazzi, si parla di un libro di vampiri che brillano al sole – e lei stessa non consiglia il matrimonio e la maternità a questo età; al contempo sono scelte da rispettare. Se una donna si sente soddisfatta con la scelta del matrimonio, perchè la si dovrebbe condannare? Il Femminismo non auspica alla libertà? Bella non viene costretta a fare nulla, Edward le da anche l’opportunità di scappare svariate volte, ma lei scegli autonomamente di farlo – decide di proseguire la gravidanza senza neanche il consenso di suo marito. Rischia la sua vita svariate volte per le persone che ama, non per un ragazzo – per sua madre nel primo libro, per il suo migliore amico nel secondo e nel terzo, per Forks nel terzo, per la sua bambina nel quarto (Bella Swan progetta un piano di fuga per sua figlia, utilizzando se stessa e la sua famiglia come scudo umano – Bella Swan è un vampiro con LA vagina di ferro) si scontra con i Volturi, ne esce illesa due volte e li umilia. C’è chi vuole diventare avvocato, chi infermiera, chi mamma e chi… vampiro – cosa c’è di anti-femminista in questo? Cosa trovo anti-femminista, è il voler fermare una persona dal fare quel che crede giusto per se stessa, andando contro gli stessi stereotipi odierni relativi al matrimonio.

Infine, viene criticato lo stile stesso della Meyer. Non credo di essere un’ottima scrittrice, né una intenditrice di certi livelli, ma riesco ancora a capire la differenza tra un buon libro ed un… tema delle elementari. Rispetto a dieci anni fa sono più consapevole, riesco a cogliere la debolezza di certi periodi. Innanzitutto spiccano quelli dalla durata breve, frasi semplici che potrebbero benissimo essere la continuazione di una frase precedente, rendendo anche il discorso più omogeneo e meno sistematico. Nonostante ciò, la lettura scorre con piacere, questo perchè i personaggi vengono approfonditi e scoperti mano a mano che il racconto prende forma, riuscendo a prenderti fino alla fine. Ancora, certe descrizioni mancano proprio di aggettivi; viene spesso ripetuto “magnifico, straordinario, perfetto” ed a volte la cosa diventa insopportabile – per non parlare dello spazio e del tempo, ridotti al minimo. Soprattutto il tempo viene trattato in certi punti in maniera lineare ed in altri in maniera del tutto sintetica ed astratta – un capitolo è composto da almeno quaranta pagina, all’interno delle quali o viene trattato un giorno dell’avventura di Bella; o vengono trattati mesi interi. Al lettore piace sapere del tempo che passa, ma esso deve essere descritto o diventa del tutto superfluo, è come se la storia per contrasto diventasse statica. Oltre a queste accortezze – susseguite da alcuni passi illeggibili (molto meglio in lingua originale) – continuo a sostenere che sia un buon libro, scritto in modo discreto. Parlando di stile, continuo a preferire quello utilizzato in “The Host” (altra opera della Meyer), però già da New Moon si può decisamente osservare una crescita.

Ma il punto è: perchè Twilight è così importante da dover essere difeso? Ipoteticamente parlando, immaginate una ragazzina che è stata scoraggiata dallo scrivere e dal suo sogno di fare della scrittura il suo mestiere, una ragazzina che un giorno si ritrovata circondata da un film tratto da un libro di cui tutti parlano, una ragazzina che costringe un parente a regalarglielo e divora in meno di cinque ore il primo libro della Saga – ipoteticamente parlando – l’avete immaginata? Quella bambina il giorno dopo ha ripreso a scrivere, quella bambina ha ripreso a sognare – e forse sono stati gli ormoni, forse il bel faccino di Robert Pattinson, o forse questo passo l’ha davvero incantata:

“Non avevo mai pensato seriamente alla mia morte […] Era senz’altro una bella maniera di morire, sacrificarmi per un’altra persona, qualcuno che amavo. Una maniera nobile, anche. Conterà pur qualcosa. Sapevo che se non fossi mai andata Forks, non mi sarei trovata di fronte alla morte. Per quanto fossi terrorizzata, però, non riuscivo a pentirmi di quella scelta. Se la vita ti offre un sogno che supera qualsiasi aspettativa, non è giusto lamentarsi perchè alla fine si conclude”

Ipoteticamente parlando, l’avete inquadrata questa ragazzina?

Torniamo ad una delle tante domande che ho posto nel corso della stesura di questo articolo: perchè nasce il romanzo? Per dilettare. Per lasciare qualcosa. Twilight mi ha lasciato un sogno. Ironico, visto che esso nasce da un altro sogno.

Who needs feminism?

“Una ragazza non dovrebbe aspettarsi speciali privilegi per il suo sesso, ma neppure dovrebbe adattarsi al pregiudizio e alla discriminazione. Deve imparare a competere… non in quanto donna, ma in quanto essere umano.” Betty Naomi Friedan

Alla domanda “Lei è femminista?” la mia docente, ha strabuzzato gli occhi e socchiuso le labbra per poi rimanere in silenzio. Sono così riuscita a sentire gli ingranaggi del suo cervello muoversi e stridere alla ricerca di quell’argomento così fuori moda. Mi ha rivolto uno sguardo preoccupato per poi dar mostra dell’ignoranza che pervade gran parte della popolazione europea ed americana: “Partendo dal presupposto che sono contro ogni cosa finisca con il suffisso -ismo”. Il resto del discorso, è stato illuminante, perchè come affermò Galieleo Galilei al suo tempo, per poter dimostrare la ragionevolezza di un’ipotesi, bisogna osservare, misurare i dati in questione e fare un esperimento. Il mio capzioso esperimento, ha confermato il fatto che neanche le donne stesse, sappiano cosa sia il femminismo. Raro conoscere persone distinte dagli uomini dalla cinta in giù, che sappiano spiegarti cosa sia il femminismo e il motivo per il quale ne sono avverse. Perchè si, cari lettori, le donne sono avverse al femminismo. Reso noto dai divertenti autoscatti condivisi sul web, è il movimento affermatosi in tutti i paesi industrializzati: quello delle anti-femministe che disprezzano il movimento in questione e lo rinnegano perchè loro “amano gli uomini” e perchè “non c’è bisogno di allontare l’uomo dalla donna, quando si ha pari dignità”. A questo punto, oserei pensare che se una persona di diciassette anni – ovvero la sottoscritta – sappia confutare totalmente queste cause, c’è davvero qualcosa che non quadra.
Seppur molti credano che il femminismo si sia sviluppato dagli anni ’70 in su – riferimento non casuale alla mia cara docente – vorrei informarvi, che al contrario, si è affermato durante la rivoluzione francese (facciamo i conti e cominciamo ad affermare che il femminismo ha avuto vita tre secoli fa) quando le donne, stufe di dover reggere la pressione fiscale imposta dalla famiglia reale, incapaci di saper sottostare alla figura del Re e prive di dignità e libertà personale, hanno deciso di mostrare quanto loro esistessero e fossero altro che carne succube del peccato.
Il femminismo – visto da molti come estremo, bizzarro, stravagante e inappropriato modo di rivendicare i propri diritti – è un movimento sociale e culturale composto – non (NON) solo – da donne che rivendica la parità sociale ed economica tra i sessi, ritenendo che le donne sono sempre state soggette agli uomini e discriminate per il loro sesso. La figura della donna infatti, nel corso della storia, è sempre stata oggetto di posesso di vari uomini – si partiva dal padre, per poi passare al marito ed anche alla propria discendenza maschile -. Il femminismo quindi, si basa sulla convinzione che i diritti sociali e politici di un cittadino non debbano essere influenzati dal genere sessuale a cui appartiene. Le femministe hanno lottato – e continuano a lottare – per essere considerate alla pari di ogni altro essere umano.
Allora la domanda sorge spontanea: l’orrore in questo valido desiderio – anzi, diritto – dove lo vedete? La parola “femminismo” che molti hanno paura di pronunciare per quel suffisso che fa ripensare al “nazismo”, “fascismo” e via discorrendo, ha davvero qualcosa in comune con questi ultimi movimenti citati? Cosa vedete di così spaventoso nel voler la parità dei sessi? Quale similarità aveva constatato tra il desiderio di avere una dignità a prescindere del proprio sesso e il desiderio di Hitler di avere un popolo privo di imperfezioni?
Ritenuto come qualcosa di “vecchio” o “sorpassato”, il femminismo è ormai un caso chiuso per molti, come una guerra civile che ha ottenuto le vittorie prefissate e che non ha più bisogno di continuare. Errore. Il femminismo, come qualsiasi ideologia, concetto, espressione e pensiero, è un “organismovivente che progredisce e che aggiunge al suo itinerario delle tappe nuove. Tappe che obbligatoriamente, devono essere raggiunte dal punto di vista globale. Il femminismo non è un “fenomeno” circoscritto in un luogo, ma prende in cosinderazione ogni Paese. Ogni persona di sesso diverso che ha il diritto di non vivere basandosi sul genere che la società – stereotipicamente – ritiene sia appropriato per noi, ma su ciò che noi vogliamo essere.
Ritornato ad essere un’argomento di conversazione e scandalo, il femminismo sembra essere trattato come un tabù, dal quale le donne stesse si allontano perchè spaventate di essere ritenute troppo radicali, ridicole e mascoline e gli uomini perchè irritati dal poter vedere scalfita la propria immagine di uomo e di essere paragonato ad una femminuccia. Al contrario del maschilismo – ideologia che dichiara le donne superiori agli animali ma inferiori all’uomo -, il femminismo nasce dalla femmina, ma si apre anche all’uomo.
Da ringraziare le figure del mondo dello spettacolo, che si sono esposte per poter utilizzare la propria immagine come mezzo, affinchè anche la più giovane fascia d’età venga a conoscenza del reale concetto di femminismo. Emma Watson, con la campagna HeForShe, ha destato stupore che subito dopo si è trasformato in critiche aspre ed insulti che ormai si affibbiano senza vergogna al femminismo. La “puttana” in questione, dopo essersi definita femminista con risolutezza e senza esitazioni (perchè definirsi tale, vuol dire opporsi alla popolazione mondiale) e dichiarato l’importanza di questa ideologia anche dal punto di vista maschile, è stata intimata, ricattata ed umiliata.

Perchè le donne, non devono esporsi troppo. Perchè le donne, possono fare ciò che gli uomini le hanno concesso di ottenere. Perchè devono rimanere al loro posto. Perchè una donna che parla di femminismo è un errore da rimediare, da correggere, da ritrattare. Ed è ironico il fatto che io debba citare per la seconda volta Galileo Galilei, ma le situazioni avvenute a entrambi questi personaggi, mi sembra accumunata dalla medesima ignoranza e codardia. Galileo Galilei, dopo aver dimostrato la teoria copernicana, andando contro la Chiesa Cattolica, ha dovuto cedere all’abiura – cioè ritrattare la sua dichiarazione – per non dover essere condannato a morte. Allo stesso modo, la Watson, è stata intimata con una arma tanto vile quanto maschilista. Ovvero è stata minacciata affinchè ritrattasse le sue parole se non voleva ritrovare in rete sue foto private.
Perchè il corpo delle donne, è sempre stato fonte di peccato, lussuria ed errore. Perchè la donna è solo un animale da dover umiliare con il suo stesso corpo. Una donna che ha semplicemente espresso la sua opinione, è stata minacciata attraverso il suo stesso corpo. Perchè non possiamo vestirci in un modo che invitiamo un uomo a violentarci. Perchè dobbiamo rimanere ferme, immobili e smettere di alzare la testa e sbirciare oltre la nostra taglia di seno.
Millenni sono passati, ma l’unica arma utilizzata dall’uomo contro la donna, è l’umiliazione. L’umiliazione di essere lasciata prima del matrimonio in epoche passate, l’umiliazione del rimanere zitella, dell’essere sterile, del rimanere incinta prima del matrimonio, dell’aborto. Donne rinchiuse in ospedali psichiatrici per tutto il novecento. Perchè dotate di una mentalità troppo aperta, radicale.

Sbagliato. Una parola con la quale i nostri genitori ci ammonivano. Una parola con la quale ci vogliono ammonire. Non ti azzardare più a parlare del femminismo Emma Watson, o ti umilieremo, è sbagliato.
Allora, allora ed allora mi chiedo ancora una volta: perchè le persone mi chiedono se io sia femminista? Mi hanno ben vista? Sono una donna. Si, dannazione, sono femminista.
Ma se lo domandano, vuol dire che esistono persone che “No, io non sono femminista” o che esitano, ci provano, si sforzano di pensarci e tutto ciò che vedono sono donne barbute, lesbiche e che vogliono la supremazia femminile su quella maschile.
Ma c’è solo una cosa che ha dato inizio al declino di ogni società umana ed è l‘ignoranza. Perciò è dovere informarsi ed informare fin dall’adolescenza di questa realtà. Perchè il femminismo è una realtà alla quale tutti apparteniamo irremediabilmente. E’ dovere chiedere ad una persona “Chi sei?” e dare per errato tutti gli stereotipi, gli idola, le realtà distorte che la società ci impone. Sei una donna. Sei un uomo. Ma questo non definisce i tuoi comportamenti. Questo non definisci chi sei.

Chi sono io?
Sono una femminista.

Perchè sono una femminista?
Perchè ho – abbiamo – bisogno del femminismo.

Perchè abbiamo bisogno del femminismo?
Perchè sono una donna. Perchè ho il diritto di vestirmi come desidero. Perchè non mi vesto in un modo per un uomo. Perchè nessuno deve prendersi dei diritti sul mio corpo. Perchè posso camminare anche io dentro casa in sola biancheria. Perchè posso entrare in parlamento, dichiarare la mia opinione e farla valere. Perchè io posso urlare. Perchè anche io posso essere volgare. Perchè gli uomini possono piangere. Perchè un uomo con differenti gusti, non deve essere seviziato. Perchè non devo aver paura di tornare a casa la sera. Perchè non devo sentirmi a disagio quando mi ritrovo in una stanza con un uomo. Perchè nessun uomo ha il diritto di seguirmi. Perchè nessuno “se la cerca” quando viene violentata. Perchè posso anche camminare per la città nuda e nessuno ha il diritto di prendersi ciò che io non voglio. Perchè io prendo decisioni sul mio corpo. Perchè in una relazione ho il diritto di parlare con altri ragazzi. Perchè alla frase “sto prendendo tempo per me stessa” non mi si deve rispondere “arriverà un uomo prima o poi”. Perchè posso guidare, si posso guidare e non essere un pericolo costante perchè sono una donna. Perchè i trans non vengono ancora accettati nella società. Perchè esistono donne costrette a nascondersi dietro abiti tradizionali.

Donne segregate.

Donne che non possono istruirsi.

Donne che muoiono dentro.

Donne che vengono uccise perchè sono donne.

Perchè non siamo animali. Perchè siamo esseri umani.

Perchè siamo tutti uguali a dispetto del proprio genere.

Quando gli anni ’80 rendono il nuovo millennio moderno.

La fine del mese di ottobre, è caratterizzata non dall’odore delle caldarroste o dalle foglie che cadono – il cambiamento dell’orario, il freddo che punge le ossa -, ma dall’adrenalina dovuta alla fine di una paziente attesa che dal 22 Ottobre dello scorso 2012 ha perseguitato qualunque amante della musica. Oggi è finalmente uscito il quinto album in studio della famosa cantante americana Taylor Swift, che dalla sua giovane età, in questo decade, si è affermata sul mercato country, fino a raggiungere definitivamente quello pop. Dopo aver annunciato il 18 Agosto di questo stesso anno la pubblicazione dell’album intitolato 1989 – in onore del suo anno di nascita – con il fresco singolo “Shake it off” (che ha conquistato anche la critica più opposta alle sue sperimentazioni), la Swift ha dichiarato ufficialmente la sua ascesa nel pop odierno, ispirato però da influenze anni ’80 che l’hanno resa ancora distinta, rispetto al mediocre mercato pop. Dopo lo shock generale, ma non inaspettato – il suo ultimo album infatti contiene tracce pressoché pop -, è riuscita a non deludere i fans appartenenti alla capitale del country, ma anche a conquistare chi non aveva una buona opinione delle sue scelte.
L’omonimo 1989 si propone come un album di rinascita, quasi ad opporsi alle “ere” precedenti, ma rimanendo “her old self again”, soprattutto ora che si è ritrovata dopo un intenso crepacuore che aveva segnato il suo ultimo successo.

“It’s so cool ‘cause I’m so appreciative of the success of Red, but I know that if I want to have success with something else, I can’t make Red 2.0. I have to make something completely new and something that, if you were to hear a song from it you’d go, ‘Oh that’s not from Red, that’s from the new one’. So that’s what I’m doing.”

Marcata da due anni di scandali senza fondamenta sui quali potevano reggersi, Taylor Swift risale dalle ceneri come una fenice e per citare una hit degli anni precedenti, “the girl is on fire”. Pronta a segnare i prossimi due anni con 13 tracce – più annesse bonus track – il mondo della musica, la ormai venticinquenne, si propone di differenziarsi nettamente dalla massa e crearsi un suo proprio spazio in un mestiere classico, ma fatto per stupire: “E’ del poeta il fin la meraviglia. Chi non sa far stupir vada alla striglia.” Giambattista Marino.
L’album in questione – presentato da una copertina in cui una polaroid incornicia il busto della cantautrice, segnando le labbra con il classico rossetto rosso che appartiene al marchio iSwift – si apre con la traccia “Welcome to New York” della durata di 3.31 minuti, pubblicata come singolo promozionale nel recente 21 Ottobre, che confuta ogni dubbio che aveva indicato la Swift, come una delle tante cantanti pop. Schizzato al primo posto della classifica di iTunes, superando il precedente singolo promozionale “Shake it off” della medesima, è stato accolto con recensioni positive sia da parte dei fans, che dei critici. In dieci anni, Taylor è riuscita a conquistarli quasi tutti – ricordiamo che una delle su tracce vincitrici di due Grammys (Mean) è stata scritta in risposta ad una critica che la riteneva “la causa del decadimento del mercato musicale” – e le ragioni sono molteplici.
“Welcome to New York” è il singolo che sicuramente aprirà l’omonimo tour relativo all’album e descrive perfettamente il cambiamento avvenuto nella Swift, senza però rendere l’interpretazione soggettiva limitata. La base sbarazzina e accompagnata da effetti elettronici per nulla pesanti o improponibili live, accompagnano un testo di per sé semplice ma che dal “crowd” – parola chiave in quasi tutte le tracce – al “the village is aglow” che rappresenta metaforicamente il villaggio globale in cui ognuno di noi vive, indica l’inizio di una nuova fase messa a paragone retoricamente con l’ingresso nella metropoli più famosa del mondo. New York, meta di sognatori, idealisti e rivoluzionari, segna questo passaggio definitivo dall’insicura e poco obbiettiva Taylor, alla donna sicura, indipendente e che non ha bisogno di un uomo. Se in “Speak now” troviamo una ragazzina che canta “So here I am, in my new apartment in a big city/They just dropped me off/It’s so much colder than I thought it would be”, in questa traccia, c’è una netta rivoluzione: “When we first dropped our bags/On apartment floors” senza rammarico.
Took our broken hearts/Put them in a drawer” e canta di come quel “break” che le aveva fatto perdere se stessa in “All too well” (I’d like to be my old self again but i’m still trying to find it) si rivoluziona in un “Everybody here was someone else before/And you can want who you want”.
Puoi essere chi vuoi, con chi vuoi – ed in questo punto azzarda senza eccedere, inserendo il diritto degli omosessuali di poter amare chi vogliono -. Indicativo anche il ritornello che pur essendo composto da una frase ripetitiva, ha anche la presenza di “The lights are so bright/But they never blind me, me” ennesima rivoluzione. Se infatti in “Red” le luci dei paparazzi la confondevano e l’accecavano, ora invece, non sono più degli ostacoli.

Se credevate che Taylor Swift avrebbe difeso la sua dignità dopo due anni di continue manifestazioni di odio nei suoi confronti, con una semplice e trascurabile “Shake it off”, non avete compreso nulla della sua persona. Come annuncia il messaggio segreto della seconda traccia di 1989 – “There once was a girl known by every one and noone” -, “Blank space” è l’ennesima vittoria schiacciante da parte della cantante, che metterà in imbarazzo le passate e future dicerie sul suo conto. Uno degli stereotipi più divulgati sulla persona di Taylor, è l’inaccurato “Si fidanza spesso per poi lasciarsi e scriverci una canzone in cui lei è la vittima”. La base ancora una volta centrata, influenzata non solo da un ritmo retro, ma dallo stile di una delle sue migliori amiche e colleghe Lorde, vede l’alternarsi di due intonazioni, che presenta la voce della Swift incentrata su note basse per poi alzarsi solo in rari momenti.
Prendendo in giro i giornali di gossip, canta “Saw you there and I thought oh my god/Look at that face, you look like my next mistake” con un tono sarcastico che rende impossibile trattenere un sorriso. Il ritornello racconta cronologicamente, come una relazione della suddetta cantante vada avanti secondo il mondo dello spettacolo, fino a terminare con una delle colpe dalle quale qualsiasi cantautore prova a rendersi innocente: “But I got a blank space baby/And I’ll write your name”. E se all’inizio della sua giovane carriera, la Swift era vista come una cantautrice che cantava dei diari segreti altrui, ora questa affermazione viene utilizzata come prova definitiva della sua meschinità. La seconda strofa, incentrata sui lati negativi che ogni persona che prova ad avere una relazione con lei deve affrontare, è importante per il breve “I get drunk”, che rende la biondina dagli occhi celesti, una persona comune e reale più di quanto possa essere. La strofa che precede l’ultimo ritornello (Boy it’s only one love if it’s torture/Don’t say I didn’t say I didn’t warn you) tralascia quasi completamente il lato sarcastico dell’intera canzone, per dare spazio ad un avvertimento che Taylor continua a sostenere in ogni intervista. Resasi conto che il problema a volte non appartiene alla coppia, ma al suo lavoro, o meglio, a chi fa parte di quello stesso mondo e scava – scava, scava, scava – fino a trovare le ossa degli scheletri, sepolti sotto cumuli di vestiti negli armadi.

La terza traccia di questo CD, presenta totalmente l’idea che Taylor aveva annunciato. Traccia totalmente influenzata dal pop anni ’80 è “Style”, (che potrebbe anche chiamarsi “Look at the name of the track”) incentrata su una relazione volta al suo termine da ormai molto tempo, ma che continua ad andare avanti ogni qual volta che le due persone in questione s’incontrano. Quasi a riproporre una storia di altri tempi, come è avvenuto con il singolo “Mine” nel 2010, “Style” è un concentrato di nostalgia ed energia che rendono una fiamma al punto di spegnersi, ancora più viva. Se in “We are never ever getting back together” propone il tema del “prendersi e lasciarsi” come qualcosa di assolutamente estenuante, in questa terza traccia, lo propone come se una relazione fosse una canzone da poter mettere in “stop” e in “play”, soprattutto se il cuore si è ormai abituato ad appartenere a questa situazione. Gettando la propria dignità da parte, il “I say I heard that you been out and about with some other girl/Some other girl/He says, what you’ve heard it’s true but I/Can’t stop thinking about you and I/I said I’ve been there a few times” detto con una lentezza che rende la situazione così reale da potersela immaginare, trasforma quest’energico pezzo anni ’80 in qualcosa di asfissiante, di doloroso. Taylor Swift non perde mai la sua indole al drama.

Quarta e prima traccia ad essere stata pubblicata durante il mese d’ottobre per promuovere l’avvento del nuovo CD, è “Out of the woods”, che con l’utilizzo della figura onomatopeica dell’eco, propone l’ossessione ed il dubbio che si forma alla fine di una relazione, quando è giunto il momento di ricordare ogni cosa. A dispetto di “All too well”, la quarta traccia di 1989, raffigura la semplicità di una relazione che poteva portare Taylor “Out of the woods”, ma che troppo spaventata ha lasciato andare via da quei boschi senza di lei. Per la prima volta, Taylor raffigura una relazione terminata per la presenza costante dei media e per l’intrusione di quei giudizi esterni che neanche in “Ours” erano state il motivo del suo separamento dall’uomo amato. Quasi ricomponendo “Haunted” da un punto di vista opposto – ritrovatasi lei dall’altra parte a dover mettere fine a tutto – “We were built to fall apart/Then fall back together”, ritorna sui suoi passi minuziosamente e con rammarico, fino a giungere all’importante “I walked out, I said “I’m setting you free” in cui Taylor Swift (la cantautrice che esce con i ragazzi per guadagnare soldi) rivela con dolore di aver lasciato andare l’unico che l’aveva resa felice in quel periodo di rosso crepacuore. In seguito, irrompe una tonalità di voce più alta che manifesta la rabbia dovuta a quella fine così poco desiderata. (Oh, I remember!)

La quinta traccia di 1989, aspettata da tutti i fans più accaniti per la cosiddetta “sindrome della quinta traccia”, secondo la quale ogni quinta traccia di ogni album di Taylor Swift, sia la più triste. A differenza delle precedenti “Cold as you”, “White horse”, “Dear John”, “All too well”, questa volta la quinta traccia non si presenta come una normale ballad alla Taylor Swift, ma con un ritmo più veloce, ma ancora composto da un testo che riprende il dolore di essere lasciati.
Taylor decide di comprendere cosa avrebbe dovuto fare lui per poter andare avanti insieme e se in “Red”, la sua voce squillante cantava su una base country di “stay stay stay” con una dolcezza canzonatoria, stavolta il “stay” accentuato dal coro e non rispettato, rende l’intero testo motivo di tristezza. Pur rimanendo uno dei testi più semplici e ripetitivi dell’album, “All you have to do was stay” è caratterizzato da versi come “Then, why you had to go and lock me out when I let you in” ai quali è impossibile remare contro e lo stesso “But people like me are gone forever/When you say goodbye” ricalca il desiderio di indipendenza che pervade 1989.
Aspettata da troppi, risulta di un livello più basso rispetto al resto dell’album. Rimpiazzabile.

Inutile soffermarci sulla sesta traccia, “Shake it off”, unico nuovo pezzo ascoltato per oltre due mesi prima del rilascio di “Out of the woods”. Pronta a voler inoltrarsi nel mondo del pop, la Swift ha saputo nuovamente attirare la curiosità del pubblico e la fremente attesa di un nuovo successo. “Shake it off”, non rappresenta in nessun modo 1989, ma è stato un ottimo mezzo per far aumentare la sorpresa all’ascolto delle altre canzoni. Insomma, non voglio di certo mentire, come si può star fermi quando questa canzone parte? Haters gonna hate, hate, hate and Taylor Swift gonna slay, slay, slay.

Immancabile la parola chiave delle canzoni di Taylor Swift. Parlo del “2 am” che possiamo identificare nello stato d’animo privilegiato che appartiene a Taylor Swift, quando un’idea per una buona canzone le corrode il cuore e la testa. Immaginatevi una donna alla finestra, durante le famose due di notte, a guardare la strada difronte casa, che sa potrebbe portarla dal suo vicino, che guarda il caso, si propone di essere il suo ex-ragazzo. Collegata alla traccia “Out of the woods” (“I’m setting you free” e “Wish I never had hung up the phone like I did”), la settima traccia “I wish you would”, ne è il risultato.
Lo stile che Taylor utilizza per narrare fatti personali, fino a renderli così comuni ed allo stesso tempo così particolari, è un talento che in questa canzone si manifesta in tutta la sua potenza. La versione più movimentata di “I almost do”, è caratterizzata da un sound anni ’80 comune a quasi tutte le canzoni, ma dallo stesso motivo che si sovrappone ad un’altro, quasi a indicare con la musica l’ammassarsi dei pensieri, che colti nel momento in cui la mente dovrebbe solo riposare, si annodano tra loro. Il ripetersi della stessa frase nel ritornello e l’ossessionato “I I I whi wish” che viene inserito durante il ritornello, a differenza del “Re-e-e-e-e-e-d” di “Red”, non vuole indicare la persistenza di quell’amore ormai sparito nell’eco del tempo, ma il persistere nel presente di quel desiderio che continuerà a perseguitarla. Un finale che non doveva essere scritto, un finale che non doveva essere vissuto, un errore irreparabile, ecco cosa è “I wish you would”.

L’ottava traccia di 1989, letteralmente come dice il titolo, non te la saresti aspettata neanche nei tuoi “Wildest dreams”. Aspettando 1989, le teorie sulle scelte del genere musicale che avrebbe scelto, erano molte. Le mie preferenze personali sono state esaudite in questi pochi minuti in cui non so cosa reputare migliori, se la musica, il testo o il modo in cui lo interpreta. Ispirata allo stile di “Young and beautiful” della caratteristica Lana Del Rey, Taylor Swift ha tratto del tema del sesso con una implicità adorabile in “Treacherous” ed ha continuando in quest’ultimo pezzo, rispettando dei confini che si è auto imposta. Trattando di un amore segreto e di qualcosa di egoistico che finalmente concede a se stessa, il tono basso e accentuato dal coro poco invadente, ha reso questo testo ancora più sublime. Uno dei migliori pezzi realizzati da Taylor Swift, contiene versi come “Some day when you leave me/I bet these memories follow you around” riprendendo il “I’ll follow you” di “Treacherous”. La cosa che più mi innervosisce, è che non è possibile che questa donna possa fare sempre di meglio, lo trovo impossibile. Eppure. Questa è la migliore canzone di 1989 e la scelta è stata difficile da compiere, se non impossibile.

La nona traccia di 1989 è l’attesissima “Bad blood”. Presentata da Taylor Swift come una canzone scritta per un’artista femminile che l’ha voluta ferire/sabotare volontariamente, molti – io compresa – si sono preoccupati. Dopo l’aver detto che “Better than revenge” (2010) è stato un suo grande errore, “Bad blood” si presentava come un secondo errore, in cui avrebbe risposto al fuoco con un vulcano in fiamme. Donna di poca fede come tante altre, non dubiterò mai più della donna matura che col tempo Taylor Swift è diventata. Ricca di una mentalità più aperta e consapevole, è riuscita a scrivere un testo in cui milioni di persone potranno rivedersi. Accompagnato da una base influenzata dallo stile di Lorde, il testo di “Bad blood” canta della delusione che puoi sentire quando una persona “I was thinking that you could be trusted” ti ferisce di proposito. Essere traditi da una persona sulla quale avevi riposto la tua totale fiducia, è qualcosa di insuperabile “Now we got problems/And I don’t think we can solve them” perciò tra di noi scorrerà per sempre “bad blood”. Al contrario di “Better than revenge”, “Bad blood” non intende mettere alla gogna il “colpevole”, ma rimpiangere la propria ingenuità ed il fatto che comunque, Taylor continua ad essere affezionata a questa persona. Se non fosse così, neanche sarebbe rimasta ferita da questo gesto. “Better than revenge” trattava di orgoglio, “Bad blood” di vero e proprio cuore spezzato. La parte più triste e ben descritta attraverso musica e stile retorico è “You say sorry just to show/You live like that, you live with ghosts”, perchè mostra nella realtà la vita del “The lucky one” e che “the fakers gonna fake, fake, fake”. La vita di una persona che avrà contatti solo con i fantasmi, con le maschere delle persone, ma non con loro per davvero. In conclusione, pur non essendo di per sé maturo scrivere una canzone “contro” una persona la cui immagine è conosciuta ed ovvia a chiunque, non ha saputo esagerare.

La decima traccia di 1989, “How you get the girl” è un vero è proprio manuale di istruzioni basato sulla realtà, su come un uomo riesce a riconquistare la donna perduta “When you left her all alone/And never told her why”. La base, lontana dal pop anni ’80 e più vicina allo stile indeciso di “Red” è la meno studiata seppur orecchiabile. Il testo ripetitivo, racconta con il disappunto di un occhio esterno – quello di Taylor – il ritorno di un ex fidanzato dalla ragazza in questione. Si comprende fin dall’inizio l’opposizione della Swift, che quasi a rifarsi a “We are never ever getting back together”, canta “I would wait for ever and ever/Broke your heart, I’ll put it back together/I want you for ever and ever” da un punto di vista diverso.
Incomprensibile come questa traccia sia al posto di una delle splendide bonus track. Esiste di peggio nel mondo della musica pop, ma rispetto al resto di 1989, “How you get the girl” è la traccia relativamente peggiore.

L’undicesima traccia, assieme a “Wildest dreams”, è una delle più suggestive dell’album. “This love” al pari di “Begin again”, sembrerebbe trattare il ritorno dell’amore nella vita della Swift, ma da un punto di vista generale, che raccoglie davanti a sé i suoi 25 anni. Personificando l’amore, ne parla come un circolo vizioso che rinasce dalla morte di quello precedente, per poi morire assieme a quello e ricominciare. Identifica l’amore come qualcosa che scivola via e continua ad essere “gone, gone and gone”. E’ una canzone che non può essere descritta, una poesia che innalza la potenza dell’amore, qualcosa che avrebbe fatto impazzire gli aderenti al “Dolce stil novo”.
Con “These hands had to let them go free/And this love came back to me” ripropone il tema del “Dover lasciare andare” chi si ama per far si che torni e si riveli vero (All you had to do was stay/I wish you would). Non sono in grado di poter dire altro, questo è uno dei casi in cui una canzone si può solo vivere intensamente, come la vita, come l’amore.

La dodicesima traccia di quest’album, tratta il tema principale ripreso sia implicitamente che completamente in ogni canzone di quest’album, ovvero il rapporto che va a crearsi in una relazione, che quando caratterizza due persone del mondo dello spettacolo, non è mai bilaterale, ma trilaterale. Lei + lui + paparazzi = “I know place”.
Il sound che riprende quella dell’amata “Haunted”, con quel ritmo che pur essendo così orecchiabile, sembra accoglierti in un mondo diverso, più tetro e dalle tonalità dark. Come dice il titolo in effetti, in questa canzone Taylor vuole portare con sé l’uomo che ama, per allontanarlo dal terzo incomodo e raggiungere un posto nel quale “we won’t be found and they’ll be chasing our trace tryin’ to track us down”. La traccia inizia nuovamente, con un ripetersi di “I I I I” – che se da una parte ricordano piacevolmente “Mine”, dall’altra rievocano l’eco di “Out of the woods” e l’ammontare dei pensieri in “I wish you would” -. Presentata come una “Ours” più graffiante, “I know places” è una canzone struggente, una delle favorite dell’album, che ricrea il mondo dell’amore dal punto di vista delle celebrità – accennato in “The lucky one” – mostrando come essere slanciate, bionde, talentuose e belle come Taylor Swift, non voglia dire avere una completa felicità ed ottenere la libertà. Al contrario, in questi 3.15 minuti, Taylor descrive la sua terra, come una prigione dalla quale fuggire, perchè “they are the hunters, we are the foxes/And we run” ed ora capisco perchè molti recensori abbiano dichiarato che questa canzone sia stata una grave perdita per la colonna sonora della trilogia “The hunger games”. Ciò, rende questa canzone ancora più amara, perchè se in “Hunger games” gli amanti in questione sono prede da cacciare per questioni di guerra, Taylor e il suo compagno lo sono per pura fame di gossip. Interessante il verso in cui paragona la già fragilità dell’amore, simile ad una fiamma che gli altri cercano di spegnere mentre gli amanti provano invano ad alimentarla con la legna (Love’s a fragile little flame) come la Swift stessa ha confessato durante una Secret Session a dei fortunati fans. Finale preannunciato, è il radicale cambiamento dei versi finali “They take their shots, we’re bulletproof/I know places/And you know for me it’s always you/I know places/And you’re dead at night, your eyes so green/I know places/And I know for you it’s always me/I know places” che ricalcano il persistere di questo sentimento che continua ad unire i due amanti, pur se il terzo incomodo abbia vinto. Non doveva essere una love story? E loro non dovevano dire solo si?

Le tredicesima ed ultima traccia della versione standard di “1989”, è una discendente di “This love” e se quest’ultima non vi aveva tolto il respiro, “Clean” è pronta a finire il lavoro o a martoriare ciò che è rimasto del tuo cuore. Paragonando il superamento della fine di una relazione al disintossicarsi, Taylor Swift, con una ballad struggente e un sospiro rafforzato da un coro sottile alla fine di ogni verso, si addentra al di fuori del bosco e “That’s when I could finally breathe”. Intossicata dall’ennesima relazione fallita, dall’ennesima strada in salita e dall’idea dell’amore che l’ha sempre ossessionata e delusa, Taylor inizia una riabilitazione che non si concentra più sul dimenticare lui, come in “All too well” o Last kiss”, ma che si impone di concentrarsi sulla sua figura. La prima strofa con “When the flowers that we’d grown together died of thirst” indica la fine di questa relazione, segnata dall’assenza – dalla sete – di amore e pazienza per poterla portare avanti. Esausta, è come se avesse “lost a war”, il legame con queste figure retoriche che legano ogni sentimento a qualcosa che si relazione alla natura, è decisamente disarmante. Se in “This love” non ne avevamo avuto abbastanza dell’acqua, eccola ritornare a sommergere Taylor ed a soffocarla fino a raggiungere il limite – come i disintossicati raggiungono il loro prima di superare la loro dipendenza – e trasformasi nella “pouring rain” – simbolo swiftiano per eccellenza -. Ma come una persona diventa dipendente a qualcosa – a qualcuno – non potrà mai semplicemente liberarsene e Taylor non finge di essere completamente disinvolta in questa faccenda, a lei manca, tutto, anche il dolore. Ma un passo alla volta, one step closer.

La prima (o quattordicesima?) traccia della deluxe edition, come sempre, si presenta come una delle migliori canzoni dell’album che avrebbe dovuto prende il posto di altre canzoni nell’edizione standard [colpo di tosse] come “How you get the girl” [colpo di tosse]. “Wonderland” con un inizio lento e semplice, a metà strofa, inizia a coinvolgere con il dubstep, dando vita ad una melodia incantevole e che dopo esserti entrata nella testa, non può più uscire, fino a tacere ed esplodere nel ritornello. “Wonderland” s’impone con l’ennesima metafora che costituisce l’intera struttura della canzone, se in “Clean” Taylor paragonava il post-breakup alla disintossicazione, in questa traccia, paragona l’intera relazione ad un gioco che come portò Alice in Wonderland fino a farle perdere il senno, fece lo stesso con lei. S’impone ancora il tema dei paparazzi dall’iniziale “Flashing lights” al “But there were strangers watching/And whispers turned to talking/And talking turned to screams” che ha portato entrambi ad allontanarsi l’un dall’altro e ad impazzire su questo errore “You searched the world for something else to make you feel like what we had/And in the end in wonderland we both went mad” facendo riferimento a “All you had to do was stay” per il “Let me remind you this was what you wanted […] You were all I wanted/But not like this”.
Impressionante come le sfumature di quest’amore non si siano fermate al solo rosso, o al blu, o al grigio, ma abbiano colpito tutti i sensi di Taylor senza renderlo mai noioso o pesantemente ricalcato.

You are in love” potrei commentarla per tutta la mia vita ed ogni giorno aggiungerei un dettaglio, solo per poter far capire quanto una canzone non mi abbia mai colpito così tanto. Per una dannata volta non si tratta di dolore, di struggente passione finita in passionale odio. Non si tratta di “All too well”, di “Cold as you”, di “You’re not sorry”, di “Last kiss”. Si tratta del lato positivo dell’amore, di quello che ti fa battere il cuore, che ti fa male perchè è troppo bello per essere contenuto in un solo corpo. Dedicata ad una coppia di amici in procinto di sposarsi – di cui lo sposo è anche il co-scrittore della canzone -, “You are in love” si meritava un CD del tutto suo, perchè non è degno di essere nella deluxe edition, né nella standard. La base particolarmente lenta, quasi inesistente e le scene di questa relazione che si susseguono dal “One look” al “He is in love”, quasi a ricordarmi lo stile di Christina Perri nella romantica “A thousand years”, Taylor descrive l’amore che non ti fa “fall”, ma che ti tiene per mani nei “silence” e che “keeps his word”. L’amore che fa cadere le maschere e scaccia via il “ghost” che ognuno di noi utilizza davanti a chiunque per non mostrare cosa sentiamo. Chi siamo. Quando inizi a credere nell’amore “You understand now why they lost their minds and fought the wards” e la dolcezza con cui Taylor riesce sempre a introdurre una parte di sé “And why I’ve spent my whole life try to put it in words” fino a farmi commuovere. Il perchè lei continua a scrivere dell’amore. Il perchè 1989 non parla di gatti e amiche, ma amore, perchè lei è intossicata dall’idea dell’amore, perchè non esiste solo quell’amore che ti “break up like a promise”, ma anche il “true love”. Il motivo per cui Taylor Swift merita di essere amata. IL motivo. IL.

Giunti all’ultima canzone dell’album, mi scende quasi una lacrimuccia, perchè non ne ho abbastanza. “New romantics”, la sedicesima ed ultima traccia di “1989” è la perfetta conclusione e il traguardo al quale Taylor Swift è giunta dopo due anni di attenta riflessione, alternata a momenti di svago con i suoi migliori amici – Red Tour compreso -. Base pop influenzato dallo stile di Lorde e da richiami anni ’80, il testo di “New romantics”, è un misto di “Blank space” e “Shake it off” con un tocco di serietà. Se in alcuni parti il sarcasmo regna inequivocabilmente, le strofe alternano realtà e stereotipi della vita reale, dai treni che non arrivano mai al perenne desiderio di un break up per poter sentire qualcosa che possa portarci a realizzare qualcosa di artistico o degno di attenzione. Inno alla vita di ogni persona che sta ancora cercando il suo posto nel mondo, “New romantics” è frutto di una donna che si è imposta anche sulla scena del femminismo e che non smette di credere nell’amore, pur essendo stata colpita sia dal suo stesso cuore, che da persone esterne e prive di intelletto.

Se Fearless è stato un album di rivelazione, Speak now di vittoria, Red di conferma, 1989 è un album di rivoluzione. In un’epoca in cui ogni settore culturale è diventato noioso e generico, Taylor Swift riesce ancora a vendere il triplo delle cantanti pop più in voga, mostrando al pubblico un nudo artistico con protagonista il suo cuore privo di barriere. Toccata da una ipersensibilità e da un ingegno a volte inaspettato, Miss Swift, non ha deluso le aspettative, al contrario, le ha superate. Dopo l’annuncio del 18 Agosto infatti, chiunque avrebbe dato per certo il flop o l’errore madornale dovuto a questo desiderio di sperimentare. Oggi, concorderete che questo desiderio ci ha portato ad essere vittime di altri due anni di puro coinvolgimento. Seguendo la scaletta degli album pubblicati, 1989, non solo conferma il successo artistico di Red, ma riesce anche a superarlo per la sconcertante variazione dal punto di vista musicale – esiste qualcosa di simile a Taylor Swift? – ma anche dal piano tematico. Come solo i veri artisti e letterati sanno fare, Taylor Swift ha trattato il tema della relazione trilaterale senza mai cadere nel banale, nel noioso o nel ripetitivo. Pochi sono gli artisti che sono riusciti a pubblicare un intero album che trattava per ben 16 pezzi, lo stesso tema in maniera diversa.

Complimenti Taylor Swift, davvero complimenti.

La malattia che diviene fenomeno.

1) Se non sei magra non sei attraente;
2) Essere magri è più importante che essere sani;
3) Comprati dei vestiti, taglia i capelli, prendi dei lassativi, muori di fame, fai di tutto per sembrare più magra;
4) Non puoi mangiare senza sentirti colpevole;
5) Non puoi mangiare cibo ingrassante senza punirti dopo;
6) Devi contare le calorie e ridurne l’assunzione di conseguenza;
7) Quello che dice la bilancia è la cosa più importante;
8) Perdere peso è bene, guadagnare peso è male;
9) Non sarai mai troppo magra;
10) Essere magri e non mangiare sono simbolo di vera forza di volontà e autocontrollo.

Se cammini per la tua città – con i soliti edifici grigi, i comuni licei pubblici, i supermercati invecchiati dal giorno della loro apertura, i giardini colmi di qualsiasi cosa eccetto che di erba – e imponi ai tuoi occhi di osservare con attenzione qualsiasi persona che ti passi avanti, puoi scoprire molte cose. L’uomo anziano seduto sulla panchina di ferro – una volta colorata di un verde smeraldo ed ora ricoperta dalla ruggine che sporca i vestiti – con le guance ruvide per la barba grigia e le narici allargate che fanno il loro dovere con lentezza, potrebbe essere chiunque. Quella pelle e quelle ossa potrebbero appartenere ad un uomo che ha perso la donna amata negli ultimi decenni – porta la fede al dito e quella della donna perduta, sotto la canotta, legato ad un rosario in legno -, quel corpo potrebbe appartenere ad un uomo solo che si trascina ogni giorno al cimitero per poter raccontare alla moglie le avventure passate insieme quando entrambi erano vivi. Quell’uomo anziano seduto su quella panchina, potrebbe non essere vivo e neanche essere morto.
Se osservi con attenzione, potresti incontrare le guance rosse di un bambino che rincorre i suoi amici già giunti dall’altra parte del marciapiede. Potresti ricordarti che ormai è l’ora di pranzo e le scuole hanno liberato le loro prigioni di ferro – ruggine sepolta dalla pittura nuova – ed ora le farfalle che facevano parlare gli stomaci dei bambini, si liberano fino a raggiungere le sali da pranzo. Puoi notare una donna che si affanna dietro questo insieme di passaggi, che tiene sulle spalle uno zaino che raffigura un cartone animato così famoso da non riconoscerlo. I capelli sono crespi e le labbra sottili, ritirate – e non per la vecchiaia, quanti anni potrebbe avere? Pensa, rifletti e deduci – e la gola secca che gracchia ammonimenti e fatica. Sudore in pieno inverno e preoccupazione.
E infine, se noti, un esodo sopraggiunge e animali dalle sembianze umane si ammassano per le strade, con gli zaini color pastello macchiati d’inchiostro, brutti voti e compiti fissati con chiodi di garofano. Non riesci a trovare qualcuno, un individuo, un singolo ragazzo o una singola ragazza che sappia rimanere ferma, mentre tutto gira intorno. Hanno gli occhi accesi dal sole delle tredici passate e le unghie laccate di uno smalto messo appena due giorni prima e che già risulta sbiadito. I mascara che disegnano ombre di successo sulle guance e il naso rosso che sostituisce le labbra prive di rossetto dopo l’ultimo cornetto mangiato.
Se aguzzi la vista e cerchi, frughi e raccogli deduzioni, puoi vedere una persona. Una sola. O tante incognite che in sessanta minuti devi scovare durante un compito in classe di matematica. Ha i capelli sciolti sulle spalle, l’eyeliner nero che sottolinea lo sguardo e le gote scavate dalle delusioni che l’età d’oro sa darti, per poi tramutarsi in rimpianti nell’età in cui l’oro diviene solo un tesoro e non una metafora. Indossa un maglione ed il seno minuto è visibile sotto gli strati di stoffa. Il polso si destreggia fra quello dei suoi compagni e il battito del suo cuore è più lento. Sorseggia una coca cola (light) e raggiunge con le gambe corte la fermata del pullman. Le labbra carnose ricordano alle amiche quanto la genetica sia un maledetto mistero e che solo una di loro potrà averle. I menù del fast food più vicino al centro commerciale al quale si stanno dirigendo, esplode sulle papille gustative come fuochi d’artificio nella città vuota – triste – che ora perde i suoi pochi colori. E i suoi occhi si spostano sul marciapiede, con una velocità ed una sorpresa che ti spingono a seguire le sue azioni. E qui, ora, se noti bene, puoi vedere solo il cemento. E l’insicurezza che grigia si stende anche accanto ai tuoi piedi. L’aria è calda, l’estate non vuole giungere al suo termine, ma una ragazza d’inverno non presta attenzione al tempo. Me lo merito? Me lo merito? Me lo merito? Me lo merito? Me lo merito?
Non c’è nulla di prezioso nelle ragazze d’inverno, nulla nelle loro ossa si avvicina alla bellezza di un fiocco di neve, eppure hanno solo questo in comune. Si assomigliano tutte e tutte assomigliano a te. E se solo, solo (solo), osservi, potrai trovarle con facilità, nascoste sotto intemperie interne.

Avrete sicuramente letto milioni di post, articoli ed anche libri che trattano questo argomento, soprattutto nell’ultimo decennio. I “disturbi dell’alimentazioni” (tipicamente riassunti dall’anagramma DCA) sono piaghe presenti nel nostro mondo, dai suoi inizi e di cui si sente parlare, come una malattia acquisita dalla nuova generazione influenzata dalle tecnologie e mass-media. In realtà, come avevo appunto accennato, i DCA sono stati presenti anche in epoche molto remote. Testimonianze e opere scritte in latino e greco dai primi medici del tempo, narrano di malattie inerenti allo stomaco, in cui un paziente soffriva di carenza d’appetito e rifiutava di alimentarsi. Particolare nell’antica Roma, era la pratica così riassunta da Seneca del “vomunt ut edant, edunt ut vomant” (ciclo di abbuffate, vomito e nuove abbuffate). Questi però, non sono ritenuti come primi casi di bulimia, perchè era una pratica compiuta dai patrizi durante i banchetti, per poter godere di altro cibo quando lo stomaco ne era ormai pieno.
In un’epoca relativamente recente, possiamo invece trovare i primi casi testimoniati di disturbi alimentari, che coinvolsero tutto il Medioevo ed ebbero ripercussioni diverse su ogni individuo. Nominata come “santa anoressia”, le donne e gli uomini del tempo (maggiormente le donne) decidevano di compiere il digiuno per rimettere i propri peccati. L’anoressia era di fatto vista, come un traguardo spirituale da raggiungere, perchè solo rinunciando ai piaceri terreni come il cibo, si poteva raggiungere la santità. Le donne, escluse da molte attività ecclesiastiche, erano per gli uomini del tempo, simbolo di lussuria, debolezza, irrazionalità e peccato. Era Eva che dopo essersi cibata della mela dell’Albero, aveva fatto cacciare l’uomo dal giardino dell’Eden. Di conseguenza, la donna personificava la tentazione e non poteva affermarsi come santa. Mortificarsi e privare il proprio corpo terreno di sostentamento, era l’unico modo per la donna, di potersi affermare come santa ed avere così un ruolo più importante.

Dopo aver letto questo breve e superficiale riassunto della storia dei disturbi alimentari, non vedrete sicuramente dei tratti in comune con quelli attuali. Al contrario, si è affermato spesso che tra la santa anoressia e l’anoressia nervosa, vi siano tratti in comune. Entrambe infatti, puntano al digiuno per raggiungere un obiettivo. Si crede fermamente, che l’unico obiettivo che una persona malata di anoressia nervosa s’impone di raggiungere, sia quello di diventare magra. Mai scritto qualcosa di più scorretto. Una persona affetta da un disturbo alimentare, potrebbe in parte aver intrapreso questa strada per evidente insoddisfazione nei confronti del proprio corpo, ma sono altri i fattori che spingono una persona a volersi liberare della propria carne, a voler morire. Non è un solo fattore a rendere una persona malata di anoressia, è l’insieme dei fatti. E’ un vuoto che comincia ad affiorare dentro, quel vuoto che molti autori provano a descrivere, che gli adolescenti provano a banalizzare sui social network, è quel qualcosa di inspiegabile, ma che senti al centro del petto. Un buco nero che ti risucchia dall’interno, al quale nessuno può trovare soluzioni, che solo sentendo – sentendo qualsiasi cosa – si riesce, non a superare, ma ad evitare. Ridurre il nostro corpo allo stremo, sentire i crampi che ti mangiano le viscere e sentire, sentire, sentire, sentire tutto fuorché il vuoto, è il perchè del disturbo alimentare.
Oggigiorno ogni adolescente viene educato a non cadere vittima di questa malattia, una malattia che non ti colpisce fisicamente, ma che ti entra nell’anima e ti ferisce lì dove nessun chirurgo può mettere mani. Solo fino a pochi secoli fa, l’anoressia era analizzata come una malattia organica, la cui cura non prevedeva di certo la cura della psiche. Solo “recentemente”, si è inteso come non si tratti del digiunare, ma del motivo che si nasconde dietro.
Stereotipata dal “mondo industrializzato”, l’anoressia è divenuta soggetta di libri che l’85% di voi avrà letto perchè affascinati dalla malattia. Ragazze con i capelli lunghi, il colorito appena pallido, un accenno lieve di occhiaie e avvolte in strati di vestiti che continuano ad andare larghi, sono le protagoniste di questi romanzi, in cui cavalieri in t-shirt, salvano le ragazze in questione allo schiocco di un bacio. Social network stracolmi di frasi romantiche sulle ossa che sporgono e sui tagli auto inflitti al proprio corpo, lì sui polsi, aspettando il ragazzo che le bacerà per poi portare via il vuoto sono l’apice del romanticismo. Ragazze che pensano di avere un chilo di troppo e sane, sane, sane, sane, che non riescono a non far altro che desiderare di essere malate. Thigh ghap, mode mortali e falsi specchi. Percezioni ormai corrotte dalla malattia e paura di affrontare un qualsiasi pasto. Conto ossessivo delle calorie, calore che ti avvolge quando ne ingurgiti una in più e vergogna, vergogna, vergogna.
Internet è un museo in cui frasi di questo genere sono raccolte, in cui ragazzine che ancora non hanno superato la sottile linea che divide la dieta dalla malattia, sono incitate a far parte di un gruppo poco selettivo e che raggiunge un solo traguardo.
I cosiddetti blog “pro Ana” e “pro Mia” sono il (poco) nuovo punto di raccolta in cui persone ormai giunte al limite della malattia e altre che non ne sono ancora state irrecuperabilmente affette, s’incontrano. Blog gestiti da persone che in prima persona seguono questo regime suicida, narrano come nelle favole, di un’entità da venerare – Ana – la cui presenza, diventerà fonte di dolore e soddisfazione.

“I tuoi amici non ti capiscono. Non sono imparziali. In passato, quando l’insicurezza ha rosicchiato tranquillamente la tua mente, e tu hai chiesto loro: ” Ti sembro… grassa?”, ti hanno risposto “Oh no, certo che no!” e sapevi benissimo ti stavano mentendo! Solo io dico la verità. I tuoi genitori figuriamoci! Sai che ti vogliono bene e che a loro importi, ma questo è il loro ruolo, e sono obbligati a svolgerlo. Ora ti rivelerò un segreto: nel loro io più profondo, sono delusi da te. La loro figlia, quella con tante potenzialità, si è trasformata in una ragazza grassa, pigra e immeritevole. Ma sono qui per cambiare tutto questo.”

La parte appena citata, è tratta da una lettera che “Ana” scrive ad ogni sua “discepola”. Potreste quasi analizzare la faccenda come una setta e se i brividi non hanno ancora percorso la vostra spina dorsale, non so cosa possa davvero farlo.

Queste persone, spacciano l’anoressia come un’amica, inculcano in ragazzini fragili e insicuri, concetti errati e modi insani per poter perdere peso. Forum creati apposta per questo legame con Ana, oltre a cercare supporto da altri simili, catalogano il loro spazio digitale in pagine in cui oltre a denunciare diete dal supporto alimentare di massimo 400 kcal, consigliano i modi in cui procurarsi il vomito e farsi del male psicologicamente. Commenti repellenti presenti sotto ciascun post e bambine dall’età di 12 anni che cercano supporto per poter saltare ancora un pasto (“Solo uno, ancora uno e potrò smettere”) e emulano le bloggers che tengono aggiornato il loro blog, incitando persone a seguire la loro strada e pubblicando sia le calorie giornaliere consumate, che i sintomi che la “dieta” sta producendo nel loro organismo. La maggior parte delle volte, i sintomi incutono terrore, ma questo, non spaventa chi vuole proseguire la strada “pro Ana” ed al contrario, risponde alla blogger per darle forza e farle conoscere la sua ammirazione.
La prima cosa chi ti può venir in mente entrando in uno di questi blog, è un suicidio assistito.

Queste persone si differenziano dalle anoressiche, perchè si indicano come consapevoli del loro problema di peso (ritenendolo in eccesso) e che per avere dei risultati tempestivi, devono agire in questo modo. Al contrario, non c’è quasi nessuna differenza tra una persona “pro ana” ed una anoressica. Entrambe infatti rifiutano di avere un problema e le conseguenti cure.

Non è più indicata come malattia. L’anoressia è un fenomeno. Un fenomeno che coinvolge qualsiasi età e sesso, che diviene sempre oggetto di dialogo con la maggior parte degli adolescenti. Ricerca di attenzione, grido d’aiuto. Persone che si fingono troppo grasse, troppo magre, troppo malate, troppo sole. Individui che in massa popolano gli hashtag di Tumblr e innalzano la loro mentalità chiusa accostando foto delle loro costole, senza far notare il viso che trattiene tutta l’aria nei polmoni. Scrivono, scrivono e riscrivono quanto si fanno schifo, masticano le pagine dei libri e rivendicano come loro le parole di persone che non ce l’hanno fatta più a convivere con se stesso. Fingono, scrivono e pubblicano. Ricevono i messaggi giusti, i mi piace tanto desiderati e l’attenzione mai avuta. E continuano a scrivere di odiare tutti, di non amare nessuno, neanche loro stessi e condividono gif di persone che si fanno del male, che piangono, muoiono. E nutrono rancore verso chi è veramente malato e può mostrare la sua miseria senza dover stare davanti ad un computer. Spero le note ricevute su Tumblr vi diano davvero soddisfazione, perchè non c’è nulla di più scioccante dei vostri post in cui dite lucidamente di voler essere anoressici, morti dentro.

Non c’è nulla di poetico nella morte. Non c’è nulla di poetico e affascinante nel vedere la pelle invecchiare a soli 18 anni, non vi è nulla che racconta bellezza negli occhi di una persona che sta morendo dentro. Nulla. Perchè rendete superficiale anche una malattia? Perchè questo rimarrà solo uno degli ennesimi post privi di voce? Perchè il mondo va avanti in questo modo? Perchè si smette di mangiare? Si smette di vivere? Perchè gli stereotipi sono divenuti così tanti, che l’anoressia sembra essere diventata una leggenda? Una storia di paura che si narra su blog ai bambini. Una favola che non prevede principi, fate e nani. L’anoressia non prevede un orologio che allo scoccare della mezzanotte la riporta indietro, lontano. O forse si, esiste. Ma non porta con se solo la malattia, ma anche la tua anima.

Piccoli conformisti crescono.

Fenomeno in espansione ed incontrollabile, noto per fini personali e giunto ad essere un protagonista nel settore del lavoro, è quello del fashion blogger. Donne dalle fattezze simili a quelle ricalcate dalle Baribe, si prestano all’ingiurioso dovere di indossare outfit dalla personalità anonima o del tutto assente, ma dal costo ineguagliabile. Ed allora, cosa c’è di così importante di cui parlare?

Hobby pressapoco patetico, è quello in cui io e le mie amiche, ci contendiamo il compito di contare le persone che indossano outfit del tutto uguali. Mi è sempre piaciuto pensare che ogni persona dovesse avere delle proprie idee e che fosse lecito trovare punti in comune ed in disaccordo con qualcuno. Discutere infatti, è uno stimolo che rende la nostra mente più aperta, facendoci crescere.
Consapevole che l’aspetto esteriore sia un lato superficiale e di minore importanza, ho comunque voluto dargli un determinato valore, per poter esprimere anche esteriormente, il modo di fare che mi caratterizza. Constatare come le mode influiscano sul modo di vestire di qualsiasi adolescente, mi fa capire ancor meglio quanto siamo deboli e soggetti al giudizio altrui.

Conformarsi alla massa è un atto che calca l’istinto e non il proprio gusto. Arriviamo al punto: se il giudizio altrui ci spaventa così tanto da scoraggiarsi dall’indossare o dal comprare un capo, quale controllo avrà sul nostro modo di pensare? La cosa più tragica, è che attualmente la maggior parte degli adolescenti, seguendo le improvvisate fashion blogger e le mode particolari (dai tratti eccentrici) credono di aver superato questo “stadio” ed essersi opposti al conformismo. Al contrario, si sono persi sulla strada dell’anticonformismo, unendosi maggiormente alla massa e rendendo una persona che indossa una maglia ed un jeans anonimo “alternativa”. Con l’aggregarsi dei nuovi social network ed il contatto sempre più presente con la cultura americana, è normale incontrare persone con i capelli colorati (che cadono a ciocche e si riversano per il mondo come palle di fierno arcobaleno) piercing obbligatori, tatuaggi indispensabili (un minuto di silenzio per i tatuatori che con pazienza, non dicono mai no all’ennesima richiesta di un’ancora) e labbra rigorosamente rosse. I vestiti, che perdono sempre più stoffa per risparmiare risorse in questo grave periodo di crisi, seguono una determinata struttura. Il crop top (la classica maglia che scopre l’ombelico) – a volte accostato erroneamente al reggiseno – susseguito da una gonna tirata il più sopra possibile a vita alta o la culottes i pantaloncini. Intramontabili le scarpe ortopediche le scarpe dalla suola alta in gomma pelle. Accessorio sempre presente – e totalmente gratis – è la scarsa voglia di vivere ed un sito Tumblr a portata di lametta mano.

Masse totalmente simili, caratterizzano i centri delle città italiane ed ora anche gli istituti scolastici. Il rientro nelle scuole (iniziato già da oggi per alcuni sfortunati) è stato centro di viva discussione e se questa notizia potrebbe farvi spaventare, calmatevi, perchè lo studio non era l’argomento in questione. Insomma, mi vorreste dire che non ci siete ancora arrivati?

COME CI SI VESTE IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA?

Perchè non importano se i seguenti nove mesi, le occhiaie macchieranno il tuo viso come un ombretto aggiunto nel posto sbagliato, i capelli si gonfieranno per lo scirocco e la tuta farà sembrare i tuoi fianchi più larghi: è il primo giorno che conta.
Dopo tre mesi passati nel provare a rinunciare ad almeno un gelato, compere fresche di salvadanai vuoti e foto postate su Facebook in cui neanche Retrica è riuscito a farti sembrare più cresciuta, il primo giorno di scuola: è fatto per dimostrare!
Propensa a dimostrarmi matura e superiore a queste sciocchezze, non ho scusanti (né vergogna) nel confessare di aver passato queste prime settimane di settembre, pensando a cosa indossare per quelle poche ore in cui non ti si accoglierà con un “Buongiorno!” ma con un “Sei dimagrita!” o un silenzio imbarazzante che invece confermerà il contrario. Mezzo di tortura sconosciuti nelle epoche passate, il primo giorno di scuola ha dato spazio alle fashion blogger che armate di louboutin, hanno provato ad aiutare le disgraziate vittime studentesse nel trovare l’outfit perfetto.

Cosa facciamo allora?

Ci ritroviamo a scuola tutte avvolte nella stessa camicia simile a quella di Armani, ma comprata dai cinesi? Che domanda dalla risposta ovvia: certo che si.
Potrei anche suggerirvi di andare in pigiama a scuola, ma questo è qualcosa da fare durante il mese di dicembre, così ho preso l‘altruistica decisione, di condividere con voi dei suggerimenti per ricreare un completo ricco di stile… anticonformismo attuale (!!!)

Cominciamo dai capelli, che devono essere naturali (e con naturali intendo con lo shatush stile goleador o ripiegate su una tinta bionda con annessa ricrescita), un make up sobrio e che richiede all’incirca mezz’ora, ovvero: stendere un fondotinta di una tonalità più scura della vostra pelle per farvi sembrare abbronzate, un correttore per nascondere le imperfezioni e un velo (con tanto di strascico) di cipria. Picchiettate sulla palpebra un ombretto color champagne ed uno bianco nell’angolo interno, per dare luce. Sfumate un ombretto nero sulla palpebra esterna e fate una linea di eyeliner (visto che è mattina, mettetene solo una linea bella doppia!). Infine passate il mascara tre volte dal basso verso l’alto. Un fard color pesca e labbra semplici, come il resto del trucco: matita rossa per dare un tocco di vintage! Ora sarete eleganti come Audrey Hepburn.
Indossate un classico abito a fiori (ma se siete troppo timide, un crop top e dei pantaloncini a vita bassa, saranno l’ideale!). Immancabili le calze a rete, o dei collant neri classici da indossare con delle parigine. Come scarpe vi consiglio delle francesine, ma non siate stupide. A scuola non si indossa un tacco raso terra (potreste disturbare le altre classi con il rumore dei tacchi), perciò optate per un plateau ed un tacco a tronchetto. Come accessori suggerisco una camicia in plaid, che sia quattro taglie più grandi della vostra e arrivi fino alle ginocchia (una vestaglia può anche fare al caso vostro se ti piace contraddistinguerti), sciarpa in lana color marrone e capello di paglia. Se non dovesse esserci il sole, un semplice berretto con la scritta “GENIUS” farà capire a tutti chi sei ed alla professoressa di inglese, quanto sei preparata!
E non dimenticarti di portare con te una pochette da tenere in mano, se no il telefono come te lo porti?

Spero di essere stata di aiuto, fatemi sapere le reazioni.

E dopo questa enorme parentesi profetica dai risvolti sarcastici che vedrò realizzarsi realmente il prossimo lunedì, vorrei tornare un attimo sulla questione “personalità”. Molte persone spesso raccontano di non indossare certe cose, perchè non confromi alla moda attuale. Sembrerà sciocco, ma se volete decidere chi siete, cominciate da queste piccole cose. Iniziate dall’indossare quel vestito che tanto cercavate nei negozi, quel taglio che mostra la semplicità o l’artista che rende la vostra persona ciò che è.
Imparate a capire cosa volete partendo dal vostro armadio, lavorate sui vostri desideri, sui vostri gusti e se capirete finalmente cosa vi piace e non cosa “dovrebbe piacervi” o cosa “piacerebbe alle vostre amiche”, riuscirete non solo ad amarvi esteriormente, ma anche a partorire delle vostre verità, vostre e di nessun’altro.
Potrebbe sembrarvi un post superficiale, ma la moda e lo stile, possono andare di pari passo con la persona che siete dentro. E’ un modo semplice e che vi aiuterà a migliorare anche il rapporto che avete con voi stesse.

Una “patologia” dalla quale non si può essere immuni.

“Lo scricchiolio che proveniva dalle assi di legno del pavimento, era causato dal pesante passo di una persona, il cui viso era nascosta dall’assenza di luce che cominciava ad accorciare le giornate di settembre. Erano appena le otto di sera di una domenica di fine estate, una di quelle sere in cui un leggero vento faceva comunque tremare di freddo anche le finestre dal vetro consumato dagli anni.
Quella baita dall’aspetto sorpassato si ergeva su una collina e distava appena mezz’ora a piedi dalla città più vicina. Pur avendo vissuto stagione dall’instabilità degradante, che ne aveva rovinato gli infissi e accolto segreti di famiglie che ormai giacevano in casse di legno e marmo, la baita non era mai stata testimone di un freddo che proveniva direttamente dal suo interno. Una luce soffocata dalla solitudine, prendeva posto su una mensolo poco stabile che le dita di qualcuno, si premuravano di mantenerla ogni qual volta che sembrava cedere. La tensione era tangibile e quasi sembrava alludere ad uno dei film gialli preferiti del protagonista, che ascoltava il silenzio con impazienza, mentre l’orrore che prendeva forma davanti ai suoi occhi scettici, richiedeva attenzione. Un bianco irreale faceva restringere le sue pupille; contemporaneamente la consapevolezza di ciò che stava succedendo, si impose con forza inquisitoria e tre crudeli parole lo descrissero, arrestando assieme al battito del suo cuore incerto, le idee che si erano nascoste: blocco dello scrittore”.

Agli albori del terzo capitolo di questa avventura digitale, mi rigiravo tra un’idea ed un’altra senza neanche avere una rosea aspettativa del risultato. Impegnata a conversare con i miei svariati complessi, ho pensato che rendervi partecipe del genere “horror” a cui ogni aspirante lettore rifiuta di assistere, sarebbe stato un ottimo punto d’incontro. Per rimanere in tema, sono stata così professionale, da essere colpita svariate volte da questa “defaillance” (o handicap?) durante la stesura di questo post, la cui utilità mi è ancora sconosciuta.

Di certo, non vi illustrerò come superare questa patologia (ci speravate?), perchè come ogni complesso psicologico che si rispetti, puoi solo conviverci e sperare che passi. Io opto quasi sempre per la convivenza, seppur manchi di pazienza e comprensione con il mio io interiore (assurdo come un’adolescente possa seriamente utilizzare questo termine, ma eccomi anticonformista come il mondo richiede attualmente).

In questo momento, vorrei improvvisarmi nuovamente “veggente” e prevedere che in una cartella digitale o cartacea nascosta tra vecchi libri, siano presenti lavori iinconclusi, che iniziati nel pieno dell’aspirazione, sono stati dimenticati nel colmo dell’esasperazione, dopo disperati “continuo dopo” e incoraggianti “non è la storia giusta”. L’ormai famoso “blocco dello scrittore” è diventato un must, o detto in maniera più esplicita, una scusa alla quale chiunque si affida quando uno scritto diventa impegnativo o l’assenza di fiducia nel proprio stile, si presenta senza motivo e con un conto salato tra le mani.
Scrivere per diletto, per svago o per semplice desiderio di mettere in ordine le proprie idee, come avevo già accennato nel primo articolo, è un atto che dovrebbe essere quotidiano nella vita di qualsiasi persona. Quando questa passione comincia a prendere una strada diversa, che oltre al dilettare la propria persona, si impegna a voler esternare qualcosa ad un pubblico, scrivere diviene, non solo un confronto con se stessi, ma anche con il mondo. Tesi a dare importanza eccessiva al giudizio altrui, noi stessi sappiamo essere giudici ancora più severi.
Per molto tempo infatti, la cronologia del mio computer, segnava ricerche in cui frasi come “elevare la propria autostima” e “superare il blocco dello scrittore” erano all’ordine di ogni giorno. Siete curiosi del risultato? Posso solo dirvi che sono ferma su questa pagina da quasi un’ora e la paura di non riuscire a rispettare le mie aspettative, elimina dalla mia testa ogni buona argomentazione. Dopo tutte queste ricerche, credo che il problema risieda proprio in questo, nelle aspettative troppo elevate e che continuano a crescere attraverso analisi di libri appartenenti al nostro patrimonio letterario.

Come ben sappiamo, nel programma scolastico italiano, vengono studiati con precisione, scritti che hanno segnato ogni epoca e riassunto l’evolersi di queste. Opere come la “Divina commedia”, “Il principe”, “I malavoglia” e via discorrendo, hanno un significato diverso l’una dall’altra. Il loro significato, non traspare dalle parole utilizzate, ma risulta dopo attente riflessioni e ragionamenti che durante il loro tempo, erano “superficialmente” normali. Attualmente, non ci poniamo più il problema della lingua, della vita dopo la morte o del metodo di governare più adeguato, perciò crediamo che dietro queste opere, ci sia un lavoro simbolico ineguagliabile – ed in parte è vero -, ma che “deve” essere riproposto oggigiorno per poter realizzare un buon libro.

Sono quasi del tutto sicura, che la maggior parte delle persone che stanno lavorando ad un manoscritto, siano persuase dall’idea di non completarlo ogni qual volta che rileggono ciò che hanno precedentemente scritto. In questi momenti, dovremmo ricordarci che un libro non deve sedurre il lettore attraverso un linguaggio in disuso e ricco di vocaboli complessi che “allungano il brodo”, ma non portano alcunché se non confusione. Un libro seduce il lettore con i suoi personaggi, con i loro caratteri forti o deboli in cui riescono a rivedersi e – ovviamente – un messaggio a cui non si deve giungere dopo secoli di analisi compiute da professori, ma gradualmente. Esistono una moltitudine di scrittori che riescono a scrivere opere caratterizzate da uno stile complesso che a volte, oltre ad articolazioni privilegiate, rimangono vuote e dimenticabili. Pochi sono gli scrittori che facendo a meno di un “chicchessia”, occupano uno spazio nel proprio cuore e donano una prospettiva diversa nel modo di vedere le cose. In più, che senso avrebbe scrivere come altre persone? La bravura sta proprio nel creare un proprio stile, che forse non sarà ricordato come quello ricco di Umberto Eco, ma appunto: noi non siamo Umberto Eco, o mi sbaglio?
Noi siamo noi stessi e invece di vivere come “tanti” e nel passato, dovremmo capire che ciò che è già avvenuto, ci deve servire solo come punto di partenza, non come struttura da ricopiare.
Non fermiamo l’evoluzione proprio ora. Perciò, la prossima volta che le idee decideranno di sottrarsi dal tuo foglio di carta o di word, non pensare che la strada che hai scelto non sia quella giusta. Scrivere è difficile a chiunque, sta a te distinguerti e continuare a provarci, anche solo per dimostrare a te stesso quanto vali.

Un “medioevo” stereotipato.

Ogni epoca, oltre ad essere caratterizzata dai suoi eventi storici, viene anche ricordata con chiarezza attraverso le opere letterarie. Infatti un preciso genere letterario, riassume le correnti di pensiero che determinano (e dividono nettamente) ogni contesto temporale. Come ci è stato insegnato durante le ore di letteratura, correnti letterarie si sono susseguite nell’arco temporale, dal lontano “dolce stil novo” al vicino “verismo” che ci hanno caratterizzato in prima persona.
Il problema attuale nell’ultimo secolo, è non l’essere riusciti a riassumere il senso di quest’epoca attraverso un’opera scritta, per poi proseguire ed evolversi mentalmente. Critiche severe stroncano il post-modernismo dei nostri giorni, che trattando di un mondo troppo complesso e mai stabile, elimina gradualmente i muri che contraddistinguono un genere letterario dall’altro. Si rivela così inconcludente rispetto ad opere italiane e riassuntive come la “Divina commedia” del nostro concittadino.
L’uomo nella sua vita quotidiana è alla costante ricerca di “ciò che non può avere”, ovvero di un significato simbolico che si nasconde dietro gli avvenimenti odierni. Lo scrittore, ancor più sensibile e ambizioso di circoscrivere le continue evoluzioni del nostro tempo, prova a costruire il presente, rivolgendosi al passato. Come di fatto accadeva con Petrarca, lo scrittore moderno si rivolge ai poeti del proprio passato per rintracciare l’umanità comune, che lega ogni epoca all’altra. Essendo consapevoli che la storia è un susseguirsi di errori comuni, il colloquio con gli autori del tempo pare l’unica soluzione.
Come avevo già accennato, generi come il “romanzo” o la “poesia” perdono requisiti che li contrapponevano, mentre assumono punti in comune. Possiamo quindi dire, che attualmente non riusciamo a cogliere il senso – la corrente – di quest’epoca, perchè siamo ancora nel “medioevo”, ovvero in un’età di mezzo in cui la nostra mentalità si sta ancora evolvendo.

Allo stesso modo, i giovani, negli ultimi anni si sono avvicinati nuovamente ai testi letterari. Ciò è avvenuto (ed avviene) attraverso l’evoluzione dei mezzi di comunicazione.
Fin dall’infanzia e ancora prima che fossi nata, con le riadattazioni cinematografiche di classici (ed attuali young adult), si è rafforzato l’interesse nel scoprire come determinate emozioni catturate dagli attori in una scena, fossero state colte con le parole. Ciò mi ha anche personalmente avvicinato ai libri.
Ricorderemo tutti la riadattazione del famoso “Psycho” che ha invogliato internazionalmente la gente a leggere il libro da cui è tratto. Possiamo anche riferirci al classico “Orgoglio e pregiudizio” (che ricorderemo per attori dal calibro di Keira Knightley) e le moderne saghe che hanno coinvolto in primis gli adolescenti ed in parte gli adulti.
Pluripremiate, le riadattazioni sul grande schermo de “Il signore degli anelli”, “Harry Potter” – oramai divenuto fenomeno mondiale e che persisterà sicuramente nella storia -, “Twilight” ed il recente “Hunger games” che si avvicina alla sua fine. Questi “fenomeni” hanno portato alla nascita di un’epoca caratterizzata da questo tipo di riadattazioni.
Gli ultimi due anni infatti, i cinema hanno vissuto un momento d’oro, ritornando ad avere i botteghini colmi con l’avvento di “Divergent” (che proseguirà con il sequel “Insurgent” il prossimo anno), il discreto “Shadowhunters” e il recentissimo “Colpa delle stelle” (o “The fault in our stars”).
Tutti i film citati, trattano di adolescenti che si improvvisano eroi in contesti diversi che sfiorano l’originale. Con il successo ai botteghini e l’aumento dei “fans” che per passione, hanno deciso di rivivere le emozioni vissute in sala, leggendo i libri completi, è dovuta nascere una corrente contrapposta.
In un mondo in cui lo young adult si è imposto con le sue storie d’amore differenziate dalle classiche, attraverso problemi più grandi dei protagonisti (ed a volte anche degli autori stessi), come in una favola che si rispetti, oltre ai personaggi “buoni” – identificabili nei “fans” -, devono coesistere gli antagonisti – identificabili nelle critiche negative e spesso ideate per potersi distinguere dalla massa -.

L’adolescente odierno stronca senza riguardo determinati libri, in parte a causa del loro “disturbante” successo, che porta spesso ad una assillante commercializzazione della storia. Come risultato, diviene antipatico alla maggior parte del pubblico. In poche parole, possiamo riassumere questa situazione nella solita frase: “si parla troppo di qualcosa, fino al punto di odiarla”.
Libri come “Twilight” (che ammetto narri una storia sdolcinata dai risvolti calcati e da un finale scontato) sono comunque scritti con uno stile minuzioso e ricco di dettagli, al quale spesso provo ad ispirarmi. Lo stesso “The host”, scritto dalla medesima autrice, dimostra il suo stile versatile degno di nota.
La recente scoperta di “John Green” invece (che ricorderete per l’attuale e già citato “Colpa delle stelle”), utilizza uno stile di per sé semplice, meno carico e pesante della Meyer, ma ricco di metafore grazie alle quali un adolescente può riscontrarsi con facilità. In questo modo, l’autore, porta anche un ragazzino dall’acerba età di 12/13 anni a riflettere su questioni importanti.
Ritornando all’opera specifica “Colpa delle stelle”, mi piacerebbe approfondire il risvolto negativo che le critiche stanno prendendo nei suoi confronti. Per chi non ne fosse a conoscenza, questo libro tratta di un tema ampiamente rivisto in altri scritti (come l’italiano “Bianca come il latte e rossa come il sangue” o il realistico “Voglio vivere prima di morire”), ovvero il “cancro”.
Potrete concordare con me, che quindi il libro si presenta con una trama commerciale. Quest’ultimo termine – che viene spesso utilizzato per indicare qualcosa creato appunto per vendere – possiamo accomunarlo al termine “stereotipo”.

Con “stereotipo” intendiamo infatti “i soliti discorsi”, le solite frasi d’amore e i soliti personaggi inverosimili che affrontano razionalmente certe situazioni dal valore relativamente doloroso e difficile. Allo stesso modo, la lettura non mi è sembrata banale come molti hanno affermato, né stucchevole quanto quella presentata in “Uno splendido disastro”. Al contrario l’ho trovato un modo (come ho già brevemente accennato) razionale e ricco di riflessione, di affrontare questa determinata patologia. John Green a cercato di dare un senso a questa piaga. Per questo, pur avendo letto svariati libri riguardanti questo tema, l’ho preferito a “Voglio vivere prima di morire” che invece – essendo più realista -, ci mostra una realtà cruda e pessimista. Forse è proprio per questo che per molti di voi, la preferenza ricade su quest’ultimo libro. Il “pessimismo” è un modo di affrontare le cose molto più ovvio e facile. Sappiamo che invece la vita non lo è, sia per una questione emotiva che fisica, perciò affrontarla in questa maniera è totalmente errato. L’uomo ha necessità di trovare il senso delle cose, quindi è inutile nasconderci dietro questo velo pessimista e smetterla di affrontare le cose. “Colpa delle stelle” mi fa pensare a questo.

Insomma, l’unica colpa di questi autori è quella di essersi rivolto ad un pubblico più semplice? Certamente non saranno libri che veranno ricordati nel prossimo millennio – e che non rivoluzioneranno il mondo -, ma sono piacevoli letture che non s’impongono come qualcosa di complesso.

Neanche questo “articolo” vuole imporsi come una prospettiva di vita corretta, né come un’opinione universale. Volevo solo presentare gli stereotipi attuali da un punto di vista totalmente diverso, che non vede questo “storie” dai tratti comuni, come un’affronto alla letteratura moderna (e passata), ma come un periodo di stallo verso qualcosa di rivoluzionario. E’ interessante vedere come i dibattiti su questo genere di argomento, stanno riprendendo forma e spessore come accadeva una volta prima dell’unità d’Italia, perciò ho voluto cimentarmi in questo impresa e dare un mio contributo.

Il mio personale intento però è questo: voi cosa ne pensate?

Un benvenuto con vista sulla “scrittura”.

Qualcuno doveva raccontare la storia dalla parte loro: così magari la gente avrebbe capito, e avrebbe smesso di giudicare un ragazzo all’istante, dalla quantità di brillantina che aveva in testa. Per me era molto importante. […]
Mi sedetti, presi la penna e riflettei un minuto. Ricordare… ricordare un bel ragazzo bruno ed elegante, dal sorriso strafottente e il sangue troppo caldo. Pensare a un ragazzo duro, incallito, sempre con la sigaretta in bocca e una smorfia amara in faccia. Ricordare – e stavolta non mi faceva più male – un sedicenne tranquillo, dall’aria di cane bastonato, coi capelli troppo lunghi e gli occhi neri atterriti. In una settimana, la morte se li era portati via tutti e tre. E io decisi di dirlo alla gente, a cominciare dal professore di inglese. Per un po’ mi domandai come iniziare quel tema, come iniziare a scrivere di qualcosa che era importante per me. E alla fine cominciai così: Quando dal buio del cinema sbucai nel sole della strada, avevo in mente due cose: Paul Newman e la scarpinata fino a casa…”The outsiders di Susan E. Hinton

 

Se un giovedì di settembre di due anni fa – proprio uno come questi, con le nuvole raccolte in cielo a fissare attentamente le città raccolte in un’ammasso di colori che ora appaiono tutti uguali e l’aria che rende il pavimento di casa caldo al contatto con piedi raffreddati – non avessi letto l’opera partorita da una quindicenne nel lontano (oppure così vicino?) 1965, in questo momento, non saprei da dove cominciare. Scrivere mi ha sempre causato un’eccitazione anomala, un’emozione che fa tremare le mie mani sulla tastiera al rumore dei tasti che vengono premuti per dare inizio a qualcosa di nuovo (“In this moment now/capture it, remember it” mi verrebbe da canticchiare ogni qual volta). Perciò, prima di cominciare letteralmente un nuovo libro della mia vita in stampa digitale, ho creduto fosse fondamentale indicare come punto di partenza il motivo della mia ambizione: i libri.
The outsiders” (o “I ragazzi della 56a strada”) è stato un libro che mi ha aiutato ad affrontare il mio primo anno di liceo, portandomi a comprendere non solo una realtà (ed un’epoca) ben diversa dalla mia, ma anche i punti in comune e gli errori che caratterizzano il genere umano fin dagli inizi. Il finale incompiuto e il capovolgimento della storia avvenuto con la citazione utilizzata per aprire questo “articolo”, sono il centro da cui tutte queste altre parole sono nate.

Ponyboy utilizza carta e penna – pensieri tramutati in parole ed impressi con l’inchiostro – per denunciare la realtà che lo affligge e riappropriarsi della propria vita, che rubata da stereotipi comuni, aveva portato un ragazzino ad incontrare il dolore, il terrore e la morte dei propri cari svariate volte. Si comincia a scrivere sempre per risolvere problemi – che per gli egizi fosse quello di dover disporre di una contabilità o per un personaggio come Ponyboy quello di redimere i propri cari, non c’interessa. Con il progredire della civiltà e l’aumentare delle esigenze, la scrittura è sempre stata una tappa fondamentale nella formazione dell’uomo – a pari passo con la lettura. Non vorrei annoiarvi inutilmente impartendo una lezione di storia sulla “scrittura”, perchè non ne farei una bella figura, non essendo preparata a dovere. E’ certo però, per quanto ironico, che le stesse parole non possono spiegare quanto la scrittura sia importante. Perciò in questo “articolo”, mi piacerebbe scoprirlo insieme a voi.

Oggigiorno con l’avvento dei social network in cui “scrivere” è diventato fondamentale per ricevere segni di approvazione o superficiale attenzione, pensieri spesso sarcastici e con un potenziale ragionamento dietro le quinte, vengono ridotti in 140 caratteri su un social come Twitter, per esprimere la confusione che aleggia nella mente di una persona che scopre (spera?) di essere capita. O ancor meglio, condivisa.
Come avrete notato la parola “autostima” può essere comodamente messa in relazione con quella di “scrittura”. L’autostima, gioca molto a favore della persona, che a seconda del rapporto che ha con se stesso, trova un motivo per cominciare a narrare qualcosa.
Si parla di “Tumblr” quando la persona in questione, decide di parlare di se stessa in prima o terza persona, con lo scopo di trovare qualcuno che accetti il suo modo di vedere le cose. Spesso, quest’ultimo social network è stato centro vivo di persone che si dividono in tre settori precisi quali: l’anoressia, la solitudine e l’autolesionismo. Con modelli a cui ispirarsi che quasi sfiorano la malattia (sia fisica che emotiva) e la scoperta, che dimostrarsi “autodistruttivi” porti un’elevazione dell’indice della propria popolarità, potremmo concludere dicendo che la “scrittura” è realmente un’arma a doppio taglio. Oltre a essere usata come valvola di sfogo, viene anche utilizzata come mezzo per raccogliere “affetto” da sconosciuti (affetto che in realtà sarebbe identificabile con la “pena”).
Mi piacerebbe ricordare loro che i poeti maledetti, oltre ad aver avuto vita breve ed infelice, hanno trovato la fama solo dopo aver raggiunto il loro punto di rottura, dal quale non sono più riusciti a far ritorno. Sperando che “le ragazze con il mare dentro” [frase con la quale questi individui si riconoscono tra loro] comincino a superare una fase creata da loro stesse per mancanza di attenzioni, passiamo al motivo per cui state ancora seguendo il fiume in piena delle mie parole.

All’età di dieci anni, mi regalarono per il mio compleanno, un diario segreto dal lucchetto in oro e mai utilizzato (credo non mi fosse durato più di un giorno e si perse assieme ad “Il cuore dell’oceano”). Ricordo la copertina decorata con una griglia in glitter e le pagine divise in quattro sezioni (blu, rosa, arancione, verde) che odoravano di gelsomino. I motivi che mi spingevano a scrivere su quelle pagine, erano i piccoli “drammi” della mia vita, che cercavo di riportare su quei fogli come storie avvincenti tratte da film. Non riuscivo a riempire più di una mezza pagina e le parole – accompagnate dagli errori grammaticali di cui più mi vergogno – narravano di faccende davvero insignificanti e di dichiarazioni d’amore che non avrei fatto ad alta voce per via della mia cara timidezza (la quale ringrazio almeno in queste situazioni). Neanche pochi mesi dopo, accantonai l’idea del diario e solo durante la fine delle elementari, iniziai a strutturare piccole storie in linea con le tracce dei miei primi temi (tengo accanto al cuore il ricordo del mio “eccellente”, quasi fosse importante quanto un Pulitzer).
Scommetto che questo mio breve racconto, vi abbia riportato alla mente il vostro caro diario segreto, il quale – ispirato dalla storia di Anna Frank o da quella di Zlata – possedeva un nome come se fosse stata una reale persona. Il “diario segreto” è sempre stata un’idea affascinante, quell’aggettivo – “segreto” – rendeva la cosa misteriosa e trasportava noi bambini in un luogo fatato come quello delle favole. Prima dell’avvento del computer, ricordo per certo, che regalarne uno fosse una fase fondamentale da dover affrontare. Cominciare a sviluppare sulla carta i propri pensieri e a scrivere senza che qualche insegnante lo ordinasse come compito per casa, era importante. Scarseggiano le tracce “Caro diario, oggi ti racconto…” che le maestre assegnavano ai propri alunni ogni estate, sostituite da videogiochi e pagine di word a cui i bambini non osano avvicinarsi.
Cosa c’è di più accogliente delle pagine glitterate e profumate? L’invito allo “scrivere” impartito da questi piccoli “libri”, ora è quasi inesistente.

Si scriveva in queste pagine colorate per riordinare la giornata, rileggere le cose fatte e sentire quanto si era cambiati, quanto si era scoperto da un giorno all’altro. I pensieri venivano raccolti da penne colorate tra ghirigori incomprensibili, giusto per mandarli via dalla propria mente e concentrarsi solo sul prossimo gioco da fare.
Attualmente, mi è capitato di conoscere persone, che come me – e come tanti altri – avevano riscontrato un piacere reale nel mettere per carta qualcosa di proprio, ma che col tempo e con la mancanza di incitamento, la passione sia sparita in uno schiocco di dita ed anche scrivere qualcosa per la scuola, sia diventato stressante. Mi piacerebbe poter riparare questi sbagli, perchè smettere di scrivere per sé, è uno sbaglio imperdonabile. L’accumularsi delle emozioni e i nodi di pensieri che popolano la nostra mente, hanno bisogno di liberarsi e noi stessi abbiamo bisogno che si liberino e ci lascino in pace per un momento.
Ho compreso da un paio di mesi, che quel “qualcosa” che in realtà blocca chiunque dallo scrivere, sia proprio la paura. Come persona nel culmine dell’adolescenza, riscontro con sensibilità la paura, quando comincio a scrivere. Portare nero su bianco cose che fino ad allora erano rimaste nella propria testa, fa paura. Conoscersi, fa paura. A volte si crede che solo gli scrittori debbano scrivere, che chi pubblica libri lo faccia con facilità, che si nasca con questa predisposizione e che scrivere, sia la loro attitudine. Mai letta qualcosa di più errato. Scrivere è attitudine degli esseri umani, è la lista della spesa che mette ordine nel nostro personale “Mind Place”, è la storia che qualcuno ci ha raccontato e che decidiamo di mettere per iscritto per capire dove va a finire, è l’illusione in cui i tuoi personaggi preferiti di una serie televisiva, si amano proprio come tu credi, è il traguardo da superare per poter credere in se stessi. Insomma, non importa il mezzo con cui lo si fa, ma “scrivere” ci porta alla creazione del nostro locus amoenus. Uno spazio in cui realmente, nessuno può entrare, né ferirci. Condividere un nostro scritto con qualcuno, è un atto di fiducia quasi mai compreso.

La passione per questo semplice, ma determinante atto, è maturato durante le scuole medie ed ha subito un duro colpo che mi ha fermato per un lungo periodo (ma mi dispiace, non per sempre). Semmai qualcuno della mia età o che stia comunemente affrontando un momento di crisi a proposito di questo argomento, vorrei dedicare questo piccolo angolo. Non si scrive per vincere qualcosa, per pubblicare qualcosa e far divenire la propria storia un best-seller. Non si scrive per essere accettati e giudicati positivamente da chi ci circonda. Si scrive per crescere.

Perciò, ora, sperando che invece di non avervi semplicemente annoiato o invogliato a non ritornare mai più in questo foglio digitale privo di glitter e odore di gelsomino, spero potrete raccogliere un qualsiasi foglio di carta e scrivere cosa vi è successo oggi. Perchè ogni giorno è degno di essere descritto ed ha valore in una vita la cui durata è relativa. Non credete?